Pirandello, si recita a soggetto
Ieri sera al Teatro Giacometti la compagnia Gank ha portato in scena, con la regia di Alberto Giusta, il classico dell'autore siculo
Ieri sera al Teatro Giacometti la compagnia Gank ha portato in scena, con la regia di Alberto Giusta, il classico dell'autore siculo
“Questa sera si recita a soggetto” proprio perché il nostro finto regista vuole presentare al pubblico uno spettacolo divertente – genere diverso dal classico Pirandello – e perciò una novità, uno spettacolo che egli stesso auspica possa essere piacevole.
L’ambientazione è quella di una città siciliana, dove le passioni, prima fra tutte la gelosia, si scatenano all’interno di quella che è la famiglia più anticonformista, quella criticata da tutti gli abitanti per la sua apertura verso i forestieri – spesso ufficiali della finanza -, quella che preferirebbe vivere “come nel continente” invece che in una realtà chiusa e conservatrice.
Il regista ci presenta la famiglia La Croce raccontandoci che è composta da madre, padre e tre figlie libertine, ironizzando sul fatto che inizialmente la prole era composta da quattro fanciulle, ma una è stata “tagliata” per mancanza di fondi.
Durante lo spettacolo sembra di assistere alle prove più che all’interpretazione dello spettacolo vero e proprio: gli attori – e per questo recitano a soggetto – non hanno un copione ben definito, devono recitare “a braccio” e il regista spesso interrompe le scene per modificare qualcosa che non va bene o spiegare loro un comportamento migliore. Addirittura il direttore si trova a volte a scusarsi col pubblico per alcune scene venute “male”, assicurando, però, che “domani andrà meglio”. Tra un atto e l’altro gli attori scendono tra il pubblico, si parlano tra loro come se fossero al bar e gironzolano per la platea. A volte questa recitazione senza una guida precisa li porta a confondersi, a non distinguere più il limite tra il personaggio interpretato e la loro personalità reale – tanto che a volte il regista li chiama col loro vero nome e cognome.
Ma gli attori non si sentono liberi di affrontare scene e personaggi come meglio ritengono, si sentono ingabbiati da un regista che li considera meri strumenti della propria arte al pari delle luci e delle scenografie. Inizialmente, per più di metà commedia, urla e litigi a parte, gli attori seguono comunque le indicazioni del direttore, ma arriva la scena clou della morte del padre, che cambia tutto e fa scatenare la loro ribellione. Il padre dovrebbe entrare in scena, nella sua casa, insanguinato per una pugnalata ricevuta al cabaret, ma bussa invano alla porta e, quando finalmente sale sul palcoscenico, non riesce a morire perché si lamenta col regista per la poca importanza data suo personaggio. E così ne nasce una discussione, in cui gli attori ricattano il regista (“O va via lei o andiamo via noi”), riuscendo finalmente a cacciarlo e a continuare lo spettacolo senza lui e le sue decisioni, recitando, finalmente, come vogliono.
A questo punto una delle tre figlie, Mommina, è costretta a sposare un giovane ufficiale, per evitare la rovina della famiglia, ma lui la chiude in casa impedendole qualunque contatto con il mondo esterno, e, pazzo di gelosia, la porta allo sfinimento ed infine alla morte.
A questo punto vi è il colpo di scena finale: il regista ricompare dalla platea e asserisce di non aver mai smesso di guidare, anche a loro insaputa, i propri attori.
Lo spettacolo si avvale di una compagnia di attori molto bravi, ma purtroppo il ritmo durante le 2 ore di commedia va a scemare anziché a salire, arrivando alla scena finale, con il dialogo tra Mommina e il marito che l’ha rinchiusa in casa, che diventa lungo e in certi punti persino noioso.
La trama, divisa in tre atti, risulta spezzettata, senza un vero continuum.
A parte queste note non proprio positive, la morale finale è che ognuno di noi, a teatro come nella vita, recita una propria parte e farà sempre ciò che la sua parte gli richiede di fare o di essere, indipendentemente dal fatto che se ne renda conto.