Ilva, l’anomalia dell’acciaio italiano
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Sara Moretto - s.moretto@ilnovese.info  
10 Gennaio 2013
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Ilva, l’anomalia dell’acciaio italiano

Nell'era del silicio ha ancora senso produrre acciaio nel Belpaese? Non sarebbe più conveniente lasciar fare alla Cina e tenere in Italia solo le produzioni più redditizie? Perché in Europa si scelgono gli altiforni mentre da noi si preferisce il forno elettrico? E quanto incide il costo della manodopera?

Nell'era del silicio ha ancora senso produrre acciaio nel Belpaese? Non sarebbe più conveniente lasciar fare alla Cina e tenere in Italia solo le produzioni più redditizie? Perché in Europa si scelgono gli altiforni mentre da noi si preferisce il forno elettrico? E quanto incide il costo della manodopera?

FOCUS – Negli ultimi mesi, Ilva è stato sinonimo di emergenza occupazionale. Il solo pensiero di quello che la chiusura dell’acciaieria tarantina avrebbe potuto provocare in termini di licenziamenti – anche nell’alessandrino – faceva tremare i polsi. La priorità era garantire un lavoro a decine di migliaia di persone impiegate nel gruppo Riva e nelle aziende dell’indotto.

• Nell’era del silicio ha ancora senso produrre acciaio?
Difficile dunque affrontare con serenità un quesito che invece dovrebbe stare a monte di tutto il problema Ilva: è giusto che la siderurgia italiana rimanga sulla strada percorsa fino a oggi? Nel mondo dei microchip e del silicio, quanta importanza ha ancora l’acciaio? Non sarebbe meglio, arrivati a questo punto, delocalizzare nei Paesi in via di sviluppo gli impianti di produzione e ospitare nella nostra Penisola solo le lavorazioni finali e più redditizie? Tralasciando che si tratterebbe solo di un palliativo al problema dell’inquinamento (e non proprio ineccepibile dal lato morale), la risposta degli esperti a un eventuale trasferimento degli impianti di produzione all’estero è un secco “no”.

• Un’industria di interesse strategico
Carlo Mapelli, docente di metallurgia al Politecnico di Milano, difende l’acciaio italiano: «La nostra industria è una delle più efficienti al mondo. Inoltre l’acciaio è la materia basilare per la manifattura: smettere di produrlo significa finire sotto ricatto». Ma quella che si alza dal politecnico milanese non è la sola voce in difesa dell’acciaio made in Italy.
Enrico Gibilleri, direttore dello Stellmaster e ultimo presidente della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), afferma: «La redditività di questo business non è in dubbio, basti pensare agli straordinari utili registrati dalle nostre aziende fino all’inizio della crisi. La manodopera rappresenta meno di un decimo dei costi, quindi non è un problema. È vero invece che l’energia da noi costa parecchio. In effetti l’acciaio fatto in India o in Cina può essere più conveniente, ma produrre in casa significa avere approvvigionamenti sicuri per l’industria».

• La Cina ci batte in quantità, non in qualità
Il quadro oggi è questo: la siderurgia italiana dà lavoro a quasi 37 mila persone. Dato in calo rispetto agli anni Novanta, quando gli impiegati nel settore erano circa 55 mila. Le varianti entrate in gioco? Semplice: la crisi e la Cina, o meglio: l’acciaio cinese. Oggi Pechino si attesta come il primo produttore di acciaio al mondo. Il Belpaese però non se la cava tanto male, restando secondo in Europa dopo la Germania e undicesima a livello mondiale. Inoltre, smettendo di guardare la questione solo dal lato quantitativo, l’acciaio europeo (insieme a quello giapponese) rimane di qualità superiore, è più leggero e resistente e può essere utilizzato in produzioni all’avanguardia.

• Altiforni, l’anomalia italiana
Quindi, il settore metallurgico italiano dà lavoro ed è di ottimo livello; insomma, qual è il problema? I dati da considerare non sono solo questi. Quando parliamo di acciaio dobbiamo fare una distinzione tra i due tipi di impianti esistenti: quelli a ciclo integrale, operanti tramite altiforni (come Taranto), e quelli che utilizzano il forno elettrico. Nel primo caso l’acciaio si ottiene fondendo minerali di ferro e carbone. Nel secondo si riciclano i rottami. Nel resto dell’Europa il 65 per cento dell’acciaio è prodotto usando il ciclo integrale e il 35 per cento con i forni elettrici. In Italia la situazione è praticamente a rovescio, e i grandi altiforni sono solo quelli di Taranto.

• Impianti diversi, diverse opportunità (e problemi)
La causa dell’anomalia italiana è storica e insieme geografica. Il risultato è duplice: da una parte l’industria siderurgica nazionale è più flessibile, visto che i forni elettrici possono cessare e riprendere il loro funzionamento con relativa facilità rispetto agli altiforni, il cui spegnimento, come abbiamo visto per la questione Ilva, necessita di molto tempo. Inoltre, dato da non tralasciare, tra i due tipi di impianto, il ciclo integrale è quello più inquinante. È proprio in questo ciclo che si liberano sostanze altamente inquinanti come il benzopirene, uno dei veleni a causa dei quali la magistratura ha imposto il blocco dell’Ilva.

• Il ricatto dei concorrenti esteri
D’altra parte, però, possiamo in qualche modo considerarci “ricattabili”, in quanto questa situazione dà ai concorrenti la possibilità di maggiorare il prezzo dei rottami riciclabili. Quanto sarebbe peggiorata questa situazione se si fosse arrivati alla chiusura totale dell’Ilva di Taranto che – con i suoi altiforni – da sola produce il 40 per cento dell’acciaio italiano?
 

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