Febbraio 1945, il ricordo della battaglia di Cantalupo
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Febbraio 1945, il ricordo della battaglia di Cantalupo

Proseguono gli appuntamenti con Franco Barella, il partigiano Lupo, che ci guida con i suoi ricordi attraverso l’aspro percorso della guerra di Liberazione, di cui quest’anno verrà celebrato il settantesimo anniversario. Questa volta si parla della battaglia del 2 febbraio 1945, a Cantalupo

Proseguono gli appuntamenti con Franco Barella, il partigiano Lupo, che ci guida con i suoi ricordi attraverso l?aspro percorso della guerra di Liberazione, di cui quest?anno verrà celebrato il settantesimo anniversario. Questa volta si parla della battaglia del 2 febbraio 1945, a Cantalupo

CANTALUPO LIGURE – Dal 15 di dicembre del 1944 li avevamo avuti addosso, così come per l’intero mese di gennaio 1945. Dalla Spezia a Piacenza, per tutto l’arco dell’Appennino, era in atto il tentativo di eliminare le formazioni partigiane che lì operavano. Fu per noi partigiani un lungo periodo di fughe senza meta, nel freddo, con la fame che attanagliava lo stomaco, il metallo raggelato delle armi che bruciava quasi fosse fuoco.

A starci addosso, con puntate improvvise, erano soprattutto i reggimenti dei “mongoli”, così chiamavamo i turchestani della divisione Ludendorff per il loro aspetto. Truppe avvezze ai rastrellamenti che, non riuscendo ad agganciare le formazioni partigiane, riversavano la loro tracotanza e delusa ira sulle popolazioni delle valli, che subirono ogni sorta di quelle violenze, soprusi e ruberie, delle quali furono oggetto anche le popolazione delle nostre valli. Alcune sfortunate donne, e con loro una bimba, subirono il lezzo e la violenza dei “mongoli”. Il paese di San Clemente venne incendiato. Furono date alle fiamme anche case e cascine dove i nazisti avevano scoperto, o sospettato, fossero state rifugio dei partigiani. Solo qualche breve tregua, fra una scorreria e l’altra, ci consentiva di “riprendere fiato”, trovare qualche indumento caldo o almeno asciutto, qualche po’ di cibo, cercare un contatto utile e avere notizie dei compagni.

La tattica delle unità della Wehrmacht, con il supporto di unità della Rsi impegnate nel rastrellamento, era quella di formare colonne di qualche centinaio di uomini, che all’improvviso penetravano nel “Bandengebiet” con l’intento di sorprendere i distaccamenti partigiani. Non riuscendo ad agganciare i “ribelli”, rastrellavano una determinata zona, commettevano ogni genere di sopruso per ritirarsi poi con il magro bottino delle cosi dette requisizioni. Comunque, anche se falliva normalmente il tentativo di agganciare le formazioni partigiane, riuscivano a creare non poche difficoltà ai partigiani che dovevano disperdersi nei luoghi meno accessibili, perdere quel poco di rifornimenti faticosamente raccolti, sospendere ogni attività di sabotaggio e guerriglia.

Non solo ma, vessando la popolazione, rendevano precario il rapporto di collaborazione, o di sopportazione, con i ribelli, da sempre gravoso per la gente del posto, eppure in atto da tempo. Comunque il comando della sesta zona Operativa Ligure riusciva a tenere sotto controllo l’intero settore, ordinando ritirate e occultamenti, disperdendo gli uomini dei distaccamenti, controllando gli spostamenti dei nazifascisti. Qui da noi non mancarono, purtroppo, le perdite: Salvarezza “Pinan” Giuseppe, fu uno dei primi a cadere: furono catturati e passati per le armi Nibbio, Bertin, Guscio, Fieramosca, Affanassi, Stivan, Pyaraschi. Certi di poter ottenere informazioni, torturarono “Zeta”, catturato dai “repubblichini” con altri sette partigiani che vennero deportati, ma lui ritornò poi in formazione in uno degli scambi di prigionieri a cui sovente erano usi ricorrere i tedeschi. Un tentativo di raggiungere Carrega, nel cuore del “bandengebiet”, condotto da una colonna di granatieri tedeschi e marò della X Mas, falli per la decisione di “Scalabrino”, il comandante del distaccamento “Guerra”, che attaccò la colonna e costrinse alla resa i pur agguerriti reparti. La notizia si diffuse rincuorante.

I partigiani delle brigate Oreste e Arzani, fra le più esposte agli attacchi durante il rastrellamento, erano da qualche giorno rientrati nei loro alloggiamenti. Erano convinti che la neve caduta in abbondanza, il freddo sempre più insistente e gli inutili ripetuti tentativi del nemico, lo avessero indotto a sospendere le operazioni. La notizia che a Borghetto Borbera erano giunti rinforzi al presidio tedesco non aveva preoccupato più di tanto il comando delle brigate.
“Scrivia” aveva dovuto, come suo vice comandante, sostituire alla testa della Sesta Zona Operativa, l’infortunato “Bisagno”. Lo sostituì al comando della 58esima “Oreste”, “Carlo”, affiancato da “Tigre”, “Toscano” e “Minetto”.

Il 2 febbraio 2945, i ragazzi della Sap di Cantalupo, certi che ormai di sorprese non era più possibile averne, sul finire della notte avevano abbandonato il posto di avvistamento al ponte del Carmine, l’ormai famoso “ponte rotto”.
Gli uomini del distaccamento Vestone, che presidiava lo sbocco in valle delle “Strette”, riposavano, dopo giorni passati all’addiaccio, negli alloggiamenti sistemati a Colonne e a Prato, due frazioni poste sulla collina sovrastante Cantalupo.
Fu Carniglia ad avvisarli che una colonna “id tudesc” aveva passato il ponte e da Pertuso stava dirigendosi verso l’interno della valle.
“Ma quelli del paese che dovevano fare il posto di blocco, dov’erano?”, fu la domanda istintiva di “Falco”, ma non c’era tempo per attendere risposte, ne discuterne. L’ordine era di ritirarsi, non accettare lo scontro, disperdersi. Dovevamo scarpinare ancora nella neve, abbandonare quella specie di alloggiamento reso quasi confortevole, perdere parte dell’equipaggiamento, scappare per l’ennesima volta.

Cominciammo a raccogliere le nostre cose. Mi rivolsi al comandante: “Scappiamo di nuovo eh? Ma cazzo “Jeck”, non sappiamo fare altro?”. Diedi stura a un coro di proteste.
“Megiu mui de palotula che de freiudu e de fame”, proruppe urlando “Zena”. Qualcuno ricordò l’attacco del “Guerra” sul Cavalmurone. Altri della battaglia di Pertuso, altri ancora il rimprovero muto dei paesani per il nostro fuggire, lasciandoli alla mercé del nemico.
Jeck sembrò lasciarsi convincere, ma credo fosse quello che desiderasse più di noi di fare da quel maledetto 15 dicembre. Chiamò una decina di noi, quelli forniti di armi a tiro lungo, ordinò a “Pantera” di portare il fucile mitragliatore. “Settimio”, il commissario, restò a Prato con il resto del distaccamento in attesa di notizie per decidere il da farsi dopo quella che doveva essere una semplice esplorazione.
Raggiungemmo la costa sotto Colonne, quasi a fianco della villa dei Gazzani e ci appostammo nell’attesa. Un leggera nebbia copriva la strada da Pertuso a Cantalupo. “Jeck”, ritto in piedi, cercava di capire dove fossero finiti i rastrellatori.
“Ma in don chi son ndati?”, mormorai a Morgan, che mi stava accanto, parlando in dialetto come uso fare quando l’emozione forte mi assale.
Udimmo suono di voci e di buffetteria scossa provenire dalla parte del ponte sul Besante, ma non si riusciva di vedere nulla.

D’improvviso la nebbia, in un complice incanto, si dissolse. Giusto in tempo per farci scorgere la colonna nemica che stava transitando nella strada sotto di noi.
“Tulatii”, fece Morgan, in dialetto, anche lui, forse per esorcizzare la ma stessa emozione.
“Jeck” batte sulla spalla di “Pantera” e partì la prima raffica del mitragliatore. La rabbia dei giorni di freddo, di fame e di umiliante fuga, si scaricò nella fucileria che seguì assordante, insistente.
Anche il mio Mauser sembrava avesse inteso quel furore represso: accoglieva e svuotava i caricatori con una facilità mai avuta.

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