Storia di Alì che si mangiò la vacca
Un profugo arrivato dal mali fino a Novi Ligure racconta la sua incredibile storia. In fuga prima dalla fame, poi dalla guerra e infine prigioniero della burocrazia italiana
Un profugo arrivato dal mali fino a Novi Ligure racconta la sua incredibile storia. In fuga prima dalla fame, poi dalla guerra e infine prigioniero della burocrazia italiana
Alì (non è il suo vero nome, ma gli ho promesso che non lo mettevo) ha i capelli bianchi, gli occhi grandi e le orecchie ancor di più. È ospite di un centro di accoglienza a Novi Ligure e mi ha raccontato la sua storia. Una storia forse come tante, ma una storia che sembra incredibile.
Alì anni fa viveva con la sua famiglia in Mali, uno stato dell’Africa oggi sconvolto dalla guerra civile e dall’espansione di Al-Quaeda. Nel suo villaggio, con la sua famiglia, coltivava la terra fino a quando un giorno suo padre si ammalò di tracoma, una infezione degli occhi provocata da un batterio che si cura con una pomata da pochi euro, ma che in Mali spesso porta alla cecità. Fu così che finì per il padre di Alì, che non fu più in grado di coltivare. “La terra sarebbe dovuta passare a mio fratello, il primogenito, ma è senza un braccio e neppure lui può lavorare. Allora il capo villaggio ci tolse la terra e la diede a un altra famiglia”.
Alì mentre racconta dice spesso “pas de problèmes”, un intercalare tipico anche se di problemi, da lì in poi, ne ha trovati parecchi.
“Non avendo più la terra, ci era rimasta la vacca che tirava l’aratro, ma senza terra non serviva più, e ce la siamo mangiata, avevamo fame”.
Anche io me la sarei mangiata, ammetto. “Un po’ di tempo dopo, il capo villaggio mi ha chiamato e mi ha detto che visto che avevo la vacca per tirare l’aratro, mi ridava la terra che era di mio padre. Peccato che nel frattempo ce l’eravamo mangiata e quindi niente vacca, niente terra”.
Alì ha tre figli e deve dargli da mangiare. Nel 2004 lascia il suo villaggio e parte per cercare lavoro, attraversando Algeria e Tunisia, fino ad arrivare a Tripoli, in Libia.
“A Tripoli sono arrivati i miliziani bambini con i fucili, e mi hanno preso tutto quel poco che avevo”.
Pensavo di aver capito male: che cosa c’entrano i bambini con i fucili? Alì mi spiega che a Tripoli le più pericolose sono le bande di bambini abbandonati, che si sono armati di fucili, pistole e coltelli e non hanno paura di nessuno. Altro che i bambini italiani “petalosi”, penso tra me e me.
Alì scappa da Tripoli e arriva in una città più tranquilla, dove trova da lavorare nei campi. Pas de problèmes.
Tutto bene per qualche anno, fino a quando in Libia arriva la guerra civile e Alì ci si ritrova in mezzo. “Sono cadute le bombe vicino a casa mia, fii-bum, fii -bum” mi dice mentre mima il gesto di una bomba che cade dal cielo.
“Una notte, mentre dormivamo, sono arrivati i guerriglieri con i mitra e il passamontagna, tutti vestiti di nero, ci hanno messo contro il muro con le mani sulla testa e ci hanno preso tutto quello che avevamo. Io avevo un telefono che mi aveva regalato mia mamma…”.
Alì a questo punto decide di tornare in Mali, e riparte a piedi. Google maps mi dice che sono 4mila chilometri, una bella passeggiata.
“Alla frontiera con la Tunisia non si poteva passare, ma un uomo mi ha detto che c’era un grande battello per andare in Algeria e che con l’equivalente di 200 euro mi portava. Io gli ho dato i soldi, gli ultimi che avevo, e mi sono presentato nel posto che mi ha detto”.
Ma come hai fatto, Alì, a finire qui? Ho il dubbio che non abbia capito le mie domande, il mio francese non è il massimo.
“Aspetta. Arrivato al posto, invece di un grande battello c’era una barca di gomma piena di gente (un canotto) e io non volevo salire, perché non so nuotare. Ma sono arrivati di nuovo dei tizi con il fucile, e io ho avuto paura. Pas de problèmes, sono salito, ma invece di finire in Algeria mi hanno portato in Sicilia, dopo un viaggio terrificante”.
Scusa, Alì, ma che storia mi racconti? Volevi andare a casa e sei finito in Italia?
“Sì, è così. Prima in Sicilia, poi a Torino, poi qui. Ho fatto domanda di asilo, perché lo fanno tutti e serve per poter lavorare”.
No, non è proprio così, provo a spiegargli. Ma ora che vuoi fare?
“Vorrei trovare un lavoro, per avere i soldi per tornare a casa, per rivedere la mia famiglia e poi tornare qui a lavorare, perché ho bisogno di dargli da mangiare. Ma la commissione ha detto di no”.
Dopo più di un anno di attesa, la commissione provinciale che decide sulle domande di asilo politico ha chiamato Alì. “Mi hanno chiesto se voglio tornare a casa, e io ho detto di sì e mi sono messo a piangere. Ho sbagliato, loro hanno detto “va bene, accontentato” e hanno respinto la mia domanda”.
Se Alì avesse risposto che non voleva tornare a casa forse la sua domanda sarebbe stata accolta, forse avrebbe trovato un lavoro e avrebbe guadagnato abbastanza per un biglietto aereo verso Bamako, la capitale del Mali (800 euro). Invece ora la sua domanda è respinta, e non ha più diritto di stare in Italia e neppure alla diaria di 2,5 euro al giorno che riusciva a mandare a casa. Con 60 euro al mese, in Mali, una famiglia ci vive. Ora Alì ha fatto ricorso, ha una massa in un braccio che gli fa male e spera che gli venga concesso asilo per motivi di salute. Ancora per qualche settimana può stare al centro, e significa aver da mangiare e un posto dove dormire. Poi, se ne dovrà andare. Come, dove, quando, con che soldi, non si sa.
“Sono 12 anni e 6 mesi che non vedo mia moglie, i miei figli”. Alì, l’omone con i capelli bianchi, si mette a piangere.
Alì, la prossima volta, se te lo chiedono, dì che non vuoi andare a casa. Pas de problèmes…