Andria-Corato, una settimana dal disastro…
"Ascoltando però i pareri degli addetti ai lavori, di chi in ferrovia ci lavora, appare chiaro che, almeno in questo caso, il problema non riguarda il tipo di strada utilizzata, ma il modo in cui viene gestita e tutelata la circolazione che su di essa scorre"
"Ascoltando però i pareri degli addetti ai lavori, di chi in ferrovia ci lavora, appare chiaro che, almeno in questo caso, il problema non riguarda il tipo di ?strada? utilizzata, ma il modo in cui viene gestita e tutelata la circolazione che su di essa scorre"
OPINIONI – Ad una settimana dalla tragica mattinata di martedì 12, la dinamica e le responsabilità del disastro ferroviario che in Puglia ha causato 23 morti e una cinquantina di feriti paiono diventare via via sempre più chiari. Un evento che ha scosso l’Italia intera e che ha riportato in auge certi argomenti, come il divario strategico tra nord e sud e, più nello specifico, lo stato di arretratezza in cui versa buona parte della rete ferroviaria nel Mezzogiorno. Come spesso accade in tragedie di questa portata, al di là dell’errore umano che pure c’è stato oltre ogni ragionevole dubbio, diversi sembrano essere i fattori, o meglio, le mancanze – anche strutturali – che hanno in qualche modo favorito il terribile scontro frontale tra i due convogli.
In prima battuta, ‘sul banco degli imputati’, l’utilizzo del sistema di controllo detto “blocco telefonico”, certamente sorpassato per gli standard attuali. Il capostazione, quando il treno arriva nella stazione A invia un dispaccio (telofonico, appunto) al collega della vicina stazione B comunicando che il treno è arrivato e la tratta a binario unico è libera e percorribile. Questo è quello che sarebbe dovuto accadere anche intorno alle 11,30 di martedì 12 tra i due capostazione di Corato ed Andria. Per qualche motivo, però, nel corso della comunicazione qualcosa è andato storto. A Corato l’Et 1018 partito da Bari arriva con 8′ di ritardo, ad Andria l’Et 1023 giunge invece da Barletta in perfetto orario. Le due stazioni distano 17 chilometri, circa 10 minuti di tragitto. In una tratta a binario unico di questo tipo il treno Et 1023 fermo ad Andria – punto di scambio – prima di ripartire deve necessariamente attendere l’arrivo del treno Et 1018 proveniente da Corato. Invece di attendere, però, inconsapevole del grave pericolo, il capostazione di Andria fa partire il treno che dopo soli 3 minuti incontrerà l’Et 1018 causando il tremendo scontro. Al momento, ad essere sulle prime pagine dei giornali è il capostazione di Andria, Vito Piccarreta, che ammette di aver dato il via “per un automatismo indotto dalla presenza di due treni in attesa” ma nega di aver falsificato i registri di viaggio. Resta ancora da capire (se c’è stata..) che genere di incomprensione – o negligenza – abbia condizionato in maniera così tragica la comunicazione tra le due stazioni.

Insomma, a differenza di quello che potrebbe avvenire in quasi tutta la rete ferroviaria italiana, dove i sistemi di controllo di circolazione sono totalmente automatizzati e l’intervento dell’uomo è davvero ridotto ai minimi termini, sulla linea Corato-Andria l’uomo e la sua naturale ‘fallibilità’ hanno giocato il ruolo della classica miccia di una bomba innescata da tanto tempo.

Questa vicenda fa emergere una volta di più una delle tante divisioni e differenze che ancora caratterizzano il nostro Paese. Il giorno successivo alla tragedia Massimo Gramellini nel suo “Buongiorno” ha scritto di due Italie “allo specchio”, una “che nel secolo dell’alta velocità boccheggia ancora sopra un binario unico” e un’altra “che di slancio si mette in coda nelle corsie d’ospedale per donare il proprio sangue ai feriti”. Si potrebbe aggiungere che da questa terribile sciagura emerge un altro tipo di ‘Italie’ a confronto, in cui una cerca affannosamente di perseguire gli standard minimi di decenza e sicurezza che la competitività del mercato su scala europea in qualche modo impone e l’altra costretta invece a doversi districare tra metodi e sistemi di controllo di vecchia generazione, procedure in cui l’uomo con la sua fallibilità non viene assistito, o sostituito, da processi automatizzati praticamente infallibili, un’Italia lasciata a sé stessa, che tira avanti affinando l’arte dell’arrangiarsi, del ‘metterci una pezza’, del ‘fatto sì, però chissà se fatto bene’. Una storia che conosciamo da sempre e che a volte presenta ai posteri il suo salatissimo conto.