Quelle antiche fornaci simbolo della crescita di Novi
Fin dai tempi più remoti il territorio del novese si è votato alla produzione del cotto come dimostrano ad esempio gli scavi di Libarna grazie alla presenza nel sottosuolo di strati di argilla con ottime caratteristiche di plasticità e coesione. Ora le vestigia di quei tempi stanno per scomparire
Fin dai tempi più remoti il territorio del novese si è votato alla produzione del ?cotto? ? come dimostrano ad esempio gli scavi di Libarna ? grazie alla presenza nel sottosuolo di strati di argilla con ottime caratteristiche di plasticità e coesione. Ora le vestigia di quei tempi stanno per scomparire
Fin dai tempi più remoti il territorio del novese si è votato alla produzione del “cotto” – come dimostrano ad esempio gli scavi di Libarna – grazie alla presenza nel sottosuolo di strati di argilla con ottime caratteristiche di plasticità e coesione.
Una terra di ciminiere
Negli anni Trenta – ricorda Eugenio Spigno nella sua pubblicazione per gli ottant’anni del gruppo Alpini novese – erano in attività numerose fornaci. Tanto per citare qualche nome: la “Lodolino” in via Casteldragone, la “Tuara” che sorgeva nell’area compresa tra villa Merella e la cascina Rebuffa (oggi zona Cipian), la “Arc” lungo la strada per Serravalle, la “Bovone” nei pressi di quella che oggi è la piscina, la “Campoleone” e la “Denegri-Picollo” verso Basaluzzo, la “Bolloli” verso Bosco Marengo.
Grandi opere, milioni di mattoni
Una tale quantità di stabilimenti produttivi si spiega bene con il grande fermento edilizio degli anni a cavallo tra le due guerre mondiali: in un’epoca in cui il cemento armato era già conosciuto ma ancora poco utilizzato (la prima legge italiana è solo della fine del 1939), i mattoni costituiscono il materiale principe per ogni tipo di manufatto. Ponti e gallerie erano ancora realizzati in mattoni pieni e per ogni costruzione ne servivano milioni. La “Tuara”, ad esempio, forniva i laterizi per la costruzione delle scuole elementari e dello stabilimento dolciario che oggi conosciamo come Novi Elah Dufour.
Cabella, la famiglia delle fornaci
Se c’è una famiglia novese che più di tutte ha legato il proprio nome e la propria sorte al mondo delle fornaci, è quella dei Cabella. A Novi le loro “tracce” sono ancora ben visibili anche nella toponomastiche: il “villaggio Cabella” fu realizzato su una cava della fornace di via Casteldragone.
Tomaso Cabella oggi è un lucido 84enne che per tutta la vita ha lavorato nella produzione dei laterizi, come prima di lui avevano fatto il padre e il nonno. In fornace è nato e in fornace ha trovato l’amore di Matilde, con cui divide tuttora la propria vita e le proprie passioni. Fra i migliori modellisti italiani, Tomaso Cabella conosce la storia delle fornaci novesi alla perfezione: di ogni evento, ricorda l’anno, il mese e persino il giorno, e ne conserva una ricca documentazione fotografica.
Dalla Crenna al Lodolino
La storia dei Cabella comincia dalla Crenna, tra Serravalle e Gavi. Da lì, nell’Ottocento, il nonno di Tomaso (che si chiama Tomaso a sua volta) si sposta per andare a lavorare nelle fornaci della zona. Le sue capacità vengono riconosciute dai proprietari della fornace di Stazzano, di cui viene posto a capo. Ma nel 1915 il mondo cade preda della cieca violenza della guerra e molte fornaci vengono requisite dall’esercito per farne polveriere: il vecchio Tomaso è costretto a “convertirsi” a contadino.
Passano gli anni, termina il conflitto e la famiglia Grosso lo chiama a Novi per gestire, insieme ad altri quattro soci, la fornace di via Casteldragone (abbattuta negli anni Ottanta). Tutta la famiglia si trasferisce Cabella alla cascina Lodolino, sempre di proprietà dei Grosso.
Grandi fatiche, grandi soddisfazioni
Nel 1936 viene fondata la “Cabella Tomaso e figli”, società che prende in affitto la fornace del Lodolino insieme alla cascina e ai terreni delle cascine Carlina e Richina, in zona Pieve. Nel 1955-56 l’affitto si trasforma in proprietà. “Al Lodolino davamo lavoro a 50 famiglie e si potevano produrre anche 6 milioni di mattoni in una stagione”, ricorda Tomaso junior. Un numero davvero sorprendente, se si considera che tutte le produzioni si svolgevano a mano (o al limite con l’aiuto di qualche asino che trascinava i carrelli) e che si lavorava solamente durante la stagione calda, dalla metà di marzo alla metà di settembre.
La terra della zona è particolarmente adatta alla produzione di mattoni pieni. “L’argilla veniva estratta a mano e caricata su piccoli carrelli, che poi venivano trainati dagli animali lungo un binario vicino alla fornace – spiega Tomaso – Poi, sempre a mano, dall’argilla si ricavava la forma del mattone che doveva essiccare e infine veniva cotto nella forno Hoffmann della fornace”.
Un procedimento lungo e faticoso: “Ricordo una squadra di quattro operai, incaricati di spostare il carico giornaliero. Iniziavano il lavoro alle quattro e mezza del mattino. Ogni mattone pesava 3 chili, e i mattoni erano 21 mila. Fate due conti… Giustamente ricevevano una paga doppia”.
L’espansione alla Barbellotta
Nel frattempo, da Genova c’era forte richiesta dei laterizi necessari per l’espansione della città. “Ma servivano mattoni forati e la terra del Lodolino e del basso Pieve non era adatta a questo tipo di produzione. Così nel 1948 mio padre Giacomo ha acquistato alcuni terreni in località Barbellotta e ha iniziato la costruzione di una nuova fornace, che purtroppo mio nonno non poté vedere finita, perché morì nel 1949”, spiega Tomaso [in foto]. La fornace – che si riesce ancora a intravvedere dietro gli alberi, lungo la strada per Serravalle – entra in funzione nel 1951 e il forno rimarrà acceso ininterrottamente per tredici anni, fino al 1964. “Alla Barbellotta si lavorava tutto l’anno, sfruttando il calore del forno per l’essiccamento dei mattoni. I turni erano due, dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22”.
Nel 1952, proprio vicino alla fornace Cabella della Barbellotta, viene costruito un altro stabilimento: è la Saflan, l’ultima grande fornace sorta nel novese, e anche l’ultima a cessare l’attività.La fine di un’epoca
L’epoca d’oro delle fornaci però stava per finire. Nel 1964 la legge sui piani regolatori mette fine alla cementificazione. D’altronde il boom del dopoguerra era terminato e la crescita demografica cominciava a segnare il passo. Per le grandi opere, poi, i mattoni erano stati sostituiti dal calcestruzzo.
“Nel 1964 fermammo una prima volta gli impianti. Nel 1966 trasferimmo gli impianti del Lodolino alla Barbellotta e convertimmo la fornace di via Casteldragone per realizzare travetti. Un’altra fermata ci fu nel 1971. Gli anni della grande crisi furono quelli del 1972-1973, quando chiusero praticamente tutte le fornaci novesi. Noi abbiamo “tirato” fino al 1977, quando il forno è stato spento per sempre”, dice Tomaso Cabella.
La Saflan [in foto] resisterà un paio d’anni in più: “Il proprietario aveva iniziato la produzione di Poroton, un mattone con polistirolo più leggero dei normali laterizi. Ma poi dovette mollare”.
Dalle grandi fornaci ai piccoli mattoncini
Oggi Tomaso Cabella è uno dei più apprezzati modellisti italiani. Dopo avere costruito mattoni per tutta la vita, adesso realizza mattoncini in scala ridottissima, ma in tutto e per tutto veri. I lavori portati a termine sono davvero molti e strabilianti come la fornace e la cascina del Lodolino, la Pieve di Novi, il castello di Pozzolo (dal 1984 conservato nell’ufficio del sindaco), la lanterna di Genova, il campanile della chiesa dei Bianchi di Serravalle e altri ancora. È da sempre socio del Csi Model di Pozzolo Formigaro, uno dei più prestigiosi in campo nazionale, e i suoi lavori sono ormai imitati come quelli degli artisti.
Per costruire i suoi modellini, Cabella ha realizzato decine di migliaia di mattoncini. Pochi forse, rispetto alle centinaia di milioni che la sua famiglia ha prodotto nel corso dei decenni, simbolo di una Novi che non tornerà più.