Robbiano: “La classe operaia ha fatto la storia di Novi”
Con la terza parte de i Senza Volto Lorenzo Robbiano ha terminato un percorso iniziato cinque anni fa con il primo libro e che ha fatto emergere una importante parte della storia della nostra città che, pur essendo stata il motore fondamentale del suo sviluppo, non era mai stata scritta
Con la terza parte de ?i Senza Volto? Lorenzo Robbiano ha terminato un percorso iniziato cinque anni fa con il primo libro e che ha fatto emergere una importante parte della storia della nostra città che, pur essendo stata il motore fondamentale del suo sviluppo, non era mai stata scritta
Nei tre libri Robbiano ha analizzato la storia del movimento operaio novese dalla fine del 700 all’avvento del fascismo. E’ evidente che esiste un filo rosso, molto robusto, che lega tutta la storia della nostra città e che è proseguito anche dopo la seconda guerra mondiale.
«Che Novi sia stata, e per molti versi lo è ancora, una città operaia è un fatto innegabile. Il punto di snodo importante per la storia del movimento operaio novese è, senza dubbio, la nascita della prima Società di mutuo soccorso nel 1850, la seconda nata nel Regno di Sardegna dopo la promulgazione dello statuto albertino, quello fu un fatto storicamente molto significativo. Di lì sono partito per capire la storia del movimento operaio novese. Non è certo un caso che nasca la necessità da parte degli operai di avere un organizzazione, di questa esigenza si fanno carico anche personaggi della borghesia, come Gianfrancesco Capurro, che si rendono conto che non si può lasciare quei lavoratori senza alcuna assistenza e in condizioni di vita e di lavoro molto precarie. Una storia, è vero, dimenticata, se escludiamo alcuni lavori come quelli di Leardi e Mori dai quali ho attinto le prime, utili, informazioni. Le ricerche che ho fatto mi hanno portato a ragionare su quel “filo rosso”, sulla storia operaia novese che ha attraversato gli ultimi due secoli; non è stato un lavoro semplice, credo che però si possa convenire che, al di là delle posizioni politiche o ideologiche, il movimento operaio sia stato un importante protagonista della storia della città e del novese più in generale.»
Quella di Novi e del suo movimento operaio è una storia atipica oppure solo poco raccontata?
«Mi sento di affermare che non sia per niente atipica, è stata solo poco raccontata o è meglio dire dimenticata, come sostengo nell’introduzione al terzo volume. La classe operaia ha, nel bene o nel male, condizionato la storia, anche politica, di Novi. Nelle cronache dei giornali locali d’epoca, ad esempio, non si trova traccia dell’occupazione della ferriera o della carbonifera avvenute nel biennio 1919/20, ma ciò è avvenuto in tutta Italia, ad esempio. Indubbiamente i ferrovieri, gli operai dell’Ilva, ma anche delle altre realtà produttive, hanno condizionato la vita della città. Basti pensare ai sindaci, agli assessori e ai consiglieri comunali provenienti dal mondo operaio e che, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale, furono presenti in quasi tutte le forze politiche. Per concludere, la storia operaia novese non è atipica, in giro per l’Italia si trovano situazioni simili alla nostra.»
Lo squadrismo fascista ha cercato di cancellare ogni traccia dell’esistenza del movimento operaio e delle Soms, distruggendo anche gli archivi e rendendo molto difficile il lavoro dello storico che vuole ricostruire quel periodo. Quali sono state le tue fonti principali?
«Indubbiamente non è stata facile la ricerca. I giornali di Novi sono serviti all’inizio per inquadrare i diversi periodi storici, ho già detto dei lavori di Michelangelo Mori e di Eraldo Leardi per me importantissimi, l’archivio storico comunale è una fonte inesauribile di notizie così come lo è internet, basta sapere cosa si cerca; inoltre ho dovuto, necessariamente, fare ricerche in campo nazionale, leggere molti libri, per capire se Novi, appunto, fosse una situazione atipica o invece fosse una delle tante realtà operaie. Se si legge l’introduzione di Diego Robotti al terzo volume si comprende come la nostra realtà non fosse per nulla avulsa dal contesto nazionale.»
Nel tuo libro precedente hai indagato la figura di Edilio Raggio. A Novi è esistita una classe operaia perché esistevano degli imprenditori come Raggio, o viceversa una ottima classe operaia ha permesso ad imprenditori di prosperare? Quale la causa, quale l’effetto?
«E’ evidente che senza le fabbriche e quindi gli industriali novesi, che indubbiamente avevano grandi capacità imprenditoriali, non ci sarebbe stata una classe operaia che, a metà Ottocento, rappresentava circa la metà della popolazione ed è pur vero che senza bravi operai le fabbriche non avrebbero funzionato. Raggio arriva da Genova, nei primi anni negli anni settanta del XIX secolo, a Novi, perché è arrivata la ferrovia vent’anni prima, il nostro territorio diventa strategico per chi deve produrre e distribuire le merci prodotte. La scelta di Raggio è emblematica, produce mattonelle di carbone per le vaporiere, colloca la Carbonifera al centro di quello che diventerà il triangolo industriale, riceve il carbone dal porto di Genova e attraverso la rete ferroviaria lo distribuisce verso Torino, Milano, Piacenza e Bologna.
Ciò produce posti di lavoro e crescita economica, è così che, non molti anni dopo, viene realizzato lo scalo ferroviario di San Bovo, all’epoca il più importante d’Italia e il primo ad essere illuminato in Europa, in grado di lavorare ventiquattro ore al giorno.»
Se non sappiamo da dove veniamo, non sappiamo dove andremo. I tuoi libri hanno fatta molta luce sul primo aspetto. Ma dove andrà la nostra città?
«Io ho cercato di raccontare cosa è successo, difficile immaginare ciò che succederà.
Negli ultimi vent’anni la realtà è cambiata significativamente. Da un lato i processi di innovazione, che non vanno demonizzati, hanno portato indubbiamente ad una riduzione dei posti di lavoro nelle fabbriche, per contro è andato avanti un processo di terziarizzazione dello sviluppo e del lavoro che è davanti ai nostri occhi, anche se l’industria a Novi rimane ancora uno degli assi portanti dell’economia. La classe operaia, intesa come produttrice di beni, non è più, almeno numericamente, la stessa e non possiamo pensare che tornino quei tempi.»
Siamo di fronte ad un cambio epocale, l’Outlet di Serravalle Scrivia ne è l’esempio più lampante.
«Si passa dai produttori di beni a chi, invece, li distribuisce. La classe operaia aveva la consapevolezza di poter incidere sui meccanismi produttivi, lo dimostra la storia, la fabbrica era e rimane ancora un momento di aggregazione dei lavoratori molto importante, nel terziario esiste una frammentazione che rende più difficile l’aggregazione. Certo è che nel settore terziario, in particolare nei grandi centri commerciali, esiste un livello di precarietà del lavoro, molto diverso da quello di cui mi sono occupato nei miei libri, che è destinato, prima o poi, ad emergere, per usare un eufemismo. Ne è esempio la richiesta dei lavoratori dell’Outlet di fare festa a Pasqua. Questa richiesta manifesta, piaccia o no, una situazione di disagio, che al di là della rivendicazione in sé, evidenzia la questione della “dignità del lavoratore” che non può rimanere tutta la vita in condizioni precarie.»