Storie alternative, mondiali
Hanno fatto bene Milena Bertolini e Sara Gama a insistere, nei giorni scorsi, sul valore della partita Italia – Brasile per tutti gli appassionati di football italiani. L’allenatrice e la capitano hanno provato a rendere l’avventura di questa squadra non un fatto di colore ma un fatto calcistico che si inserisce nell’epopea di questo sport; nella memoria condivisa e tramandata di generazione in generazione dagli appassionati. Un fatto storico e non di cronaca.
Deve aver colpito loro quanto noi che, se si sfogliavano le edizioni dei giorni scorsi dei principali quotidiani sportivi, i servizi sul match di ieri sera venivano dopo tutto il calcio maschile possibile, dall’Under 21 a Maurizio Sarri, dall’addio di Totti al mercato delle neopromosse in Serie A. Deve essere stata forte, nelle donne della nazionale, la sensazione che non appena saranno eliminate tutti, proprio tutti, anche i sette milioni che ieri si sono sintonizzati su Rai 1, si dimenticheranno di loro e torneranno ad occuparsi di cose considerate più serie, in questo Paese dove il tifo fanatico spesso divora la cultura sportiva.
La verità è che in molti paesi le nazionali maschili giocano per la patria, sono la patria, le nazionali femminili giocano per esistere, per essere riconosciute, per non essere un parente di quelli di cui in fondo ci si vergogna o di cui si parla solo nei giorni delle feste. Proprio come accade a certe discipline olimpiche, di cui ci accorgiamo ogni quattro anni, quando si vince qualche medaglia, e poi basta. Lo dice tutti i giorni, dalla Francia, anche la brasiliana Marta, considerata la più forte giocatrice in attività, che ieri ha tenuto le Carioca dentro il torneo, segnando il rigore che ci ha sconfitto, senza toglierci l’importantissimo primo posto nel girone. Italia e Brasile possono ancora inseguirla, la loro storia. Perché se sulle maglie azzurre e verde oro ci sono rispettivamente quattro e cinque stelle a simboleggiare le Coppe Rimet e FIFA alzate in cielo dagli uomini, i titoli femminili di entrambe sono fermi alla finale perse dalle Samba Queens nell’edizione del 2007 (a cui si sommano due medaglie d’argento olimpiche).
Confrontando gli albi d’oro divisi per genere, solo una nazione vanta vittorie in entrambe le colonne: neanche a dirlo, la Germania, che vanta sei trionfi complessivi, di cui due tra le donne (e un oro olimpico). I veri dominatori sono invece gli USA, con tre successi (e quattro ori olimpici), seguiti dalla Norvegia (un Mondiale e un’Olimpiade) e il Giappone (un Mondiale). Formazioni che in campo maschile hanno svolto tuttalpiù il ruolo delle squadre simpatia, degli outsider un po’ ruvidi ma destinati a non lasciare il segno se non come dignitosi sparring partner.
Probabilmente i sociologi e gli storici sarebbero in grado di spiegare questa divergenza di risultati, come hanno già fatto lo scorso autunno, trattando la meravigliosa nazionale femminile di volley come una tribù esotica in cui compiere una ricerca sul campo. Ma è difficile parlare di football di genere dopo aver visto ieri, intorno al quarto d’ora, un tiro di tacco no look di Debinha parato di abilità e istinto da Laura Giuliani. Bellezza calcistica allo stato puro, che ha riempito gli spettatori di Valenciennes, di quel senso di pienezza estetica che questo gioco sa offrire. Ci separano sette giorni dall’ottavo di finale di Montpellier, e lì ci dirigiamo, a vedere la storia che silenziosamente si compie.
Allez, filles!