“Hammamet”: gli ultimi giorni di un re senza corona
CINEMA –
I carri armati a fari spenti nella notte sotto la pioggia
Hanno lasciato strane tracce sull’asfalto piene di sabbia
Il presidente dietro i vetri un po’ appannati fuma la pipa
Il presidente pensa solo agli operai sotto la pioggia
(Antonello Venditti, Sotto la pioggia)
È uno strano film, quest’ultimo di Gianni Amelio, sin dall’esordio della sua lunga carriera così vicino alle tematiche di ambientazione sociale, di riflessione civile su cancri e storture che, nella maggior parte dei casi, scorre attraverso il racconto di singole vite e destini (vedi, ad esempio, nel 1982, Colpire al cuore, sui meccanismi del terrorismo declinati nel rapporto tra un padre e un figlio; ma anche i successivi Porte aperte – candidato all’Oscar nel 1991 – tratto da un romanzo di Sciascia e con protagonista Gian Maria Volonté, Il ladro di bambini, Lamerica e Così ridevano).
Una delle stranezze maggiori consiste nella discrasia esistente tra il macroscopico lavoro compiuto sul volto dell’attore protagonista di Hammamet – Pierfrancesco Favino – fino a stravolgerne i connotati, nel passaggio alla dimensione di maschera riproducente con impressionante mimetismo le fattezze di Bettino Craxi, e l’impostazione (a detta del regista stesso) piuttosto vaga e atemporale della storia, che mira a conferire un valore simbolico a situazioni e personaggi.
«Vogliamo dire che c’è un paradosso, anche?», sottolinea Amelio nel corso di una recente intervista per “Cineforum”. «Il film ha cercato e ottenuto una somiglianza fisiognomica pressoché totale, e nello stesso tempo si è completamente allontanato dalla cronaca, dalla cronistoria, anche dai fatti così come sono avvenuti, a parte forse la sequenza iniziale, il congresso del Psi. L’assenza di nomi tende a rendere tutto allegorico più che realistico. Quindi parliamo di Sofocle, Elettra…».
Così, nella prospettiva non solo metaforica ma anche rispecchiante la tragedia classica del regista siciliano, i riferimenti a persone e contesti chiaramente riconoscibili vengono omessi, per una precisa scelta narrativa: il nome di Craxi non è mai messo in campo, sostituito da “il Presidente”, la villa di Hammamet, suo ultimo rifugio, è quella reale ma, al contempo, specchio simbolico e misterioso di segregazione, antro oscuro nel quale il Potere ferito a morte si accartoccia e deflagra su se stesso. Gli episodi di Sigonella, dell’Hotel Raphael sono traslati, entro uno slittamento semantico evidente, riprodotti in altre forme e sfondi.
La figlia amorevole, sofferente e contratta nel proprio ruolo – sia materno che ancillare – anch’essa figura tragica, nel film risponde al nome di Anita (Livia Rossi), il figlio maschio ma imbelle, vittima del disinteresse e della disistima paterni, non è nominato, così come la moglie e l’ultima amante (un cameo di Claudia Gerini).
Poi ci sono le figure di contorno, una sorta di coro tragico, appunto: in primis l’ex braccio destro ed amico Vincenzo (un ottimo Giuseppe Cederna), in crisi nel suo rapporto col partito già dai tempi dello storico congresso del Psi alle fabbriche Ansaldo di Milano, nel 1989, individuo spigoloso eppure, in apparenza, amatissimo anche post mortem dal Presidente, che ne vagheggia e ricompone il ricordo insieme al figlio Fausto (Luca Filippi). Quest’ultimo è un’altra figura strampalata eppure – a detta di Amelio – emblematica, che si introduce come il minaccioso paramilitare alla testa di un commando nella villa tunisina, diventando in un secondo tempo il prezioso serbatoio dei racconti e delle memorie del Presidente, a tratti filmate in formato 4:3.
Difficile istituire un collegamento verosimile con un individuo reale anche per quanto riguarda il politico interpretato da Renato Carpentieri, che nel corso di una visita al Presidente riflette in maniera piuttosto sibillina con lui di ciò che è stato e di quel (poco) che ancora rimane.
E, infine, c’è il Presidente stesso: questa figura ingombrante, imbarazzante nella sua strenuamente difesa autoreferenzialità, che si difende e giustifica il proprio operato senza darlo a vedere, che assolve e si autoassolve, detta articoli di teoria della politica alla silenziosa figlia, ricorda di aver finanziato il sostentamento di persone in fuga da guerre e dittature, promette immediato aiuto a una famiglia tunisina indigente, con la madre gravemente malata.
Un uomo tenero (con il nipotino, che gioca con lui nei panni dell’aiuto-generale), ribelle con i medici che gli impongono drastiche cure e soluzioni per il diabete che gli sta divorando una gamba, spesso prepotente e collerico con la moglie (emblematica la scena in cui cambia canale senza chiederle il permesso, passando dalla visione del film di Jacques Tourner Le catene della colpa a un programma in cui si esibiscono delle soubrettes) e l’amorevole figlia, impacciato con l’amante di vecchia data, tanto da voler fare marcia indietro poco prima di rivederla.
Un colosso coi piedi d’argilla, insomma, un re senza più corona provato nel fisico, forse anche nella mente, ma con un carattere forgiato nell’acciaio: un re che, con estrema lucidità, sente avvicinarsi l’ora della fine e accusa, abbozza, pontifica, emblema di un Potere che ha sempre concepito come inevitabile, addirittura necessario.
Al Presidente non resta, emblematicamente, che rifugiarsi in un sogno un po’ felliniano (uno dei passaggi meno riusciti del film), in cui ritrovare il padre, camminare a piedi nudi tra le guglie del Duomo di Milano, osservare la città dall’alto e poi assistere, incredulo e impotente, a una satira in stile Bagaglino, mentre un altro se stesso si trova da solo, al centro del palcoscenico.
Il Presidente sogna e racconta i propri sogni, come quello che incomprensibilmente lo trascina in un Parlamento ostile e poi amico. E c’è, a corollario di tutto, quell’immagine iconica che apre e chiude Hammamet, quel lancio con la fionda del Presidente bambino, il sorriso beffardo, i vetri della finestra del collegio infranti.
«Craxi nel film diventa un personaggio tragico», spiega Amelio. «C’è qualcosa di profondamente umano, che può avere a che fare con Craxi, come con Re Lear o con un qualsiasi leader e sovrano di fronte alla morte. Favino sembra quasi combattere contro la maschera, per far emergere da dentro verità che altrimenti sarebbero invisibili e che vanno al di là di Craxi. E credo c’entri anche la regia, il modo in cui rimani a guardarlo oltre la battuta iconica, il gesto caratteristico, oltre la maschera».
È vero che Pierfrancesco Favino offre un’interpretazione attoriale magnifica, che eccede se stessa, coadiuvata dal trucco di scena per quanto riguarda il volto, ma basata sulle sole capacità mimetiche per quanto concerne la gestualità, l’inflessione camaleontica della voce; come, probabilmente, si può credere nella sincerità del regista, quando afferma che non è mai stato nelle sue intenzioni il dare vita a un film “politico”, cronachistico o giudicante.
Tuttavia, di fronte alle nebulosità storiche della pellicola e all’incongruenza maggiore, il cortocircuito semantico che pone sullo stesso piano il riferimento più smaccato (attraverso la maschera iperrealista che viene commissionata a Favino) alla figura reale dell’ex segretario del partito socialista italiano e – in parallelo – il dichiarato intento metaforico dell’opera come rappresentazione astratta del Potere, l’interrogativo sorge spontaneo, parafrasando Raymond Carver: “di cosa parliamo quando parliamo di Hammamet?”
Hammamet
Regia: Gianni Amelio
Origine: Italia, 2019, 126′
Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alberto Taraglio
Fotografia: Luan Amelio Uikai
Montaggio: Simona Paggi
Musica: Nicola Piovani
Cast: Renato Carpentieri, Pierfrancesco Favino, Omero Antonutti, Luca Filippi, Livia Rossi, Giuseppe Cederna, Claudia Gerini, Silvia Cohen
Produzione: in associazione con Evolution People, in collaborazione con SBH, Pepito Produzioni con Rai Cinema in associazione con Minerva Pictures Group
Distribuzione: 01 Distribution