«Il film sogna come sogniamo noi. Un fantasma per me memorabile? Quello che ho proposto per la copertina del libro»
Sergio Arecco, critico cinematografico ci racconta il suo ultimo libro
Si intitola “Quando il cinema era giovane. I fantasmi dell’opera, i fantasmi all’opera” (edizioni Petite Plaisance, 2021), l’ultimo libro di Sergio Arecco. Un volume entusiasmante, non solo destinato ad un pubblico di appassionati cinefili ma anche alla portata di tutti i lettori. Un autentico viaggio nella memoria e nelle diverse latitudini di un cinema ancora ‘giovane’, colto quando poneva le basi del proprio linguaggio, a fondamento delle evoluzioni future.
Il saggio di Arecco rappresenta anche una fotografia estremamente nitida della fase che il mezzo cinematografico sta attraversando, con la rivoluzione digitale in atto e il radicale cambiamento nelle modalità espressive dell’opera filmica, fruibile sempre più sulle piattaforme in rete o tramite gli smartphone e, paradossalmente, sempre più lontana dalla sala.
L’autore spazia con abilità e coinvolgente estro narrativo da “Un chien andalou” di Buñuel al ‘perseguitato’ Godard, dal cinema estremo dell’ultimo Pasolini a “Melancholia” di von Trier che riprende in alcuni riferimenti figurativi “Solaris” di Tarkovskij, dall’erotismo rarefatto della Dietrich in “Shangai Express” di von Sternberg a quello carnale di Barbara Stanwick in “Baby face” di Alfred E. Green.
Abbiamo chiesto a Sergio Arecco di raccontarci la genesi, i contenuti e gli obiettivi del suo lavoro.
Chi è
Sergio Arecco, nato a Novi Ligure il 3 luglio 1945, già insegnante, studioso di cinema e da più di vent’anni anche traduttore, è il primo esegeta della controversa filmografia di Pier Paolo Pasolini e, in seguito, autore di apprezzate monografie sui registi Nagisa Ôshima, John Cassavetes, Ingmar Bergman, Alain Resnais, Robert Bresson e sui fenomeni divistici incarnati da Marlene Dietrich e Marlon Brando.
Come è nata l’idea originaria riguardo i contenuti di questo tuo ultimo libro?
Va detto che i quattordici saggi che lo compongono erano già usciti su “Cineforum” verso la fine degli anni Dieci. L’idea originaria è stata quella di raccoglierli, dopo che mi sono accorto che li legava un filo rosso, lo stesso che mi aveva suggerito i loro contenuti da un numero all’altro della rivista. Contenuti apparentemente diversi ma accomunati da un’idea ricorrente: esaminare film del passato o del presente nell’ottica della loro affinità di linguaggio, riguardassero essi l’emigrazione o il teatro nel cinema, la sessualità o l’erotismo (non sono la medesima cosa), la pittura o la censura sovietica e/o americana, la cecità o persino il tatuaggio. L’affinità data dall’esplorazione in profondità di un tema o di una condizione. Bertrand Tavernier, regista a me caro che ho frequentato di persona e studiato (vorrei ricordarlo qui, essendo da poco scomparso), diceva che o si è contadini o si è minatori. I contadini lavorano la superficie. I minatori la scavano.
Come si è trasformata, con la rivoluzione digitale, la fruizione dello spettacolo cinematografico? Puoi farci, a questo proposito, alcuni esempi significativi?
Ecco un’altra ragione della mia scelta. I film trattati sono stati tutti visti in sala. I film che vediamo oggi o abbiamo visto in questi mesi di pandemia sono o sono stati visti su piattaforme televisive o addirittura sullo smartphone. Dov’è finito lo ‘spettacolo’? Quello che solo una visione su grande schermo può dare. La ricezione, oltre che da attiva a passiva, da collettiva a individuale, si è immiserita, ha perso la sua ‘aura’, si è disumanizzata. Come si fa a vedere “The Irishman” di Scorsese (prodotto da Netflix due anni fa e praticamente non circolato in sala), opera grandiosa di quasi 4 ore, su uno schermo comunque ridotto e sterile?
Con riferimento al sottotitolo del tuo libro, quali sono i fantasmi (dell’opera e all’opera) cinematografici di Sergio Arecco?
Sono i personaggi stessi del film quando sogna nell’identica misura in cui sogniamo noi, essendo esso, per sua natura, fantasmatico, onirico, capace, con la magia intrinseca che possiede – dell’irreale comunque, dell’incorporeo materializzato in figure impalpabili – di farsi intreccio di fantasie, proiezioni dell’inconscio, memorie (ogni nostra memoria non è sempre più o meno alterata dalla soggettività con cui la riviviamo a distanza?)
In un saggio del tuo libro (“Cecità o della visione totale”) tu proponi un’approfondita riflessione su limiti e sulle potenzialità dello sguardo cinematografico, anche in questo caso citando diverse opere. Mi pare che questo contrasto fra cecità e visione rappresenti un po’ il filo conduttore del tuo discorso…
È così. Ho detto prima che il film sogna come sogniamo noi. Ebbene, noi non sogniamo forse a occhi chiusi? La nostra visione onirica non è forse cieca? Eppure è estremamente varia e spesso potente, quasi coercitiva: ci costringe a vedere non vedendo come vediamo banalmente alla luce del sole. La sala è – ERA – buia. La proiezione avviene, avveniva, al buio. Un fantasma per me memorabile? Quello che ho proposto per la copertina del libro. La moglie morta che ricompare coattivamente al Kris astronauta protagonista di “Solaris” di Tarkovskij. Non la può cancellare. Il sogno (la visione) è ancora più, forse, di quel sogno-visione che è il cinema, e il grande Tarkovskij ce lo dice con la sua metafora dentro la metafora. «Noi siamo come un sogno dentro un sogno», faceva dire Pasolini a Totò in “Che cosa sono le nuvole?”, citando Edgar Allan Poe.
Nella tua prospettiva, come si evolverà in futuro lo spettacolo cinematografico? Ci fermeremo sugli smartphone e le piattaforme oppure torneremo allo spettacolo tradizionale in sala?
Temo sia più probabile la prima ipotesi. Giusto ieri ho visto un film, peraltro di richiamo in questo periodo (“Old” di Shyamalan), in una sala completamente vuota. Sarà pure estate, ma non dovrebbe esserci, dopo la fase più acuta della pandemia, un nuovo stimolo per andare al cinema? Eppure niente. Il Festival di Venezia, per dire, sarà pieno di gente che andrà lì per snobismo (salvo pochi cinefili seri e preparati) e che poi ozierà in casa vedendo serie o film in televisione.
Quanto la tua esperienza di traduttore supporta quella del cinefilo, che legge e ‘traduce’ il linguaggio del cinema, rendendolo più comprensibile?
Moltissimo. Da quando traduco (un po’ più di 20 anni), il mio tipo di analisi dei film si è affinato, approfondito. Nella traduzione si cerca l’espressione giusta per ‘tradurre’ il pensiero dell’autore, rispettandone lo stile e la tessitura linguistica. Il film non è forse a sua volta costituito da una tessitura linguistica? C’è sempre un codice linguistico da decodificare. Tra un libro scritto in altra lingua e la sua versione in italiano pare, a livello di senso comune, esserci una breve distanza, mentre la distanza è grandissima, perché non c’è versione letterale che tenga, ci vuole reinvenzione. La stessa che il cinefilo attiva ‘leggendo’ un film, traducendone le immagini in parole scritte (quelle della recensione o ri-lettura, quand’essa non è pura notizia e diventa interpretazione), vale a dire in un’altra categoria d’immagini, quella delle metafore, delle figure retoriche della scrittura.