Oltre il Primo Maggio: il cinema racconta il lavoro
La complessa e sfaccettata, a tratti drammatica realtà del mondo del lavoro è stata spesso raccontata dal cinema, che in alcuni casi si è dimostrato un formidabile strumento di denuncia civile.
Per continuare ad approfondire questo delicato argomento anche oltre la giornata del Primo Maggio, proponiamo due focus su altrettante pellicole di anni recenti, che hanno saputo narrare determinate realtà lavorative e sociali con particolare incisività ed efficacia: si tratta di “Le invisibili” di Louis-Julien Petit e di “Sorry We Missed You” di Ken Loach, entrambi del 2019.
“Le invisibili”
«Le mie protagoniste, gran parte delle quali vive davvero in strada in una condizione di sopravvivenza, sono combattenti di una Resistenza contro l’epoca contemporanea che non le vede nemmeno, e che non ha posto per loro».
Così il regista francese – classe 1983 – Louis-Julien Petit definisce le quattro donne (tutte attrici non professioniste, tutelate attraverso l’uso di soprannomi che fanno riferimento a donne celebri della cronaca e della cultura contemporanee – da Lady D a Édith Piaf, a Brigitte Macron e Beyoncé – al fine di preservarne la privacy) al centro della storia raccontata nel suo terzo film, “Le invisibili”, abilmente sospesa tra la commedia farsesca e il dramma e campione d’incassi ai botteghini francesi, con un introito di oltre 10 milioni di euro.
L’intento di Petit, sin dagli esordi dedito all’impegno sociale e all’approfondimento di problematiche legate, in particolar modo, al mondo del lavoro (dalla disoccupazione in “Discount” allo sfruttamento in “Carole Matthieu”, le sue precedenti opere), è quello di regalare in maniera non episodica dignità e visibilità a quelle frange della società attuale troppo di frequente relegate ai margini, sino a perdere voce e diritti. Ma non solo: “le invisibili” nel film non sono soltanto le donne senza fissa dimora. Al loro fianco nel lungo e complicato percorso di ricomposizione della propria vita ci sono altrettante donne, quattro assistenti sociali il più delle volte altrettanto invisibili e non considerate (interpretate dalle attrici Corinne Masiero, Audrey Lamy, Déborah Lukumuena, Noémie Lvovsky).
La narrazione si apre al centro diurno Envol, nel momento in cui il Comune decreta la sua chiusura: è qui che il plot prende il largo e si vivacizza, mostrando la tenace battaglia delle quattro assistenti sociali in favore delle loro protette, bisognose di un lavoro che le sottragga alla vita in strada.
Per riuscire ad attribuire alla storia un maggiore realismo, il regista ha frequentato per un anno diverse strutture d’assistenza sparse sul territorio francese (tenendo presente che la percentuale femminile delle persone senza fissa dimora oltralpe si attesta sul 40%), incontrando sia le loro ospiti che le professioniste del sociale preposte a sostenerle.
Lo stile di Petit, incisivo e graffiante, fatto di bruschi scarti, di repentini passaggi da situazioni e scene armoniosi, anche figurativamente, all’uso della camera a mano, in sequenze caotiche e dense di pathos, ricorda da vicino quello del cinema dei fratelli Dardenne (“Rosetta”, 1999; “Due giorni, una notte”, 2014) e di Ken Loach (vedi l’ultimo “Io, Daniel Blake”, 2016, vincitore della Palma d’oro a Cannes).
«L’ispirazione me l’ha data Roberto Benigni con “La vita è bella”», rivela Petit. «Subito dopo averlo visto sono corso da mia madre e le ho detto: “Farò il regista, e nient’altro”. Il mio primo corto aveva come argomento “La vita è bella”, che era anche al centro della mia tesi sul determinismo alla scuola di cinema. Benigni ha saputo farmi ridere degli eventi più orribili, e io non ho dimenticato la sua lezione. Ho avuto anche altri esempi, però. La commedia anglosassone del periodo post-Thatcher, quella di Ken Loach, Stephen Frears o Peter Cattaneo, che hanno cercato di trovare un po’ di humour nella crisi economica dando agli spettatori la sensazione che tutto fosse ancora possibile, e la forza per sperare in un miglioramento. Ma mi sono ispirato anche alla commedia italiana, in particolare quella di Ettore Scola o al Luigi Comencini de “Lo scopone scientifico”».
Nell’agosto 2018 la pellicola è stata mostrata alla sindaca di Parigi, per sensibilizzarla alle precarie condizioni di vita delle senzatetto della capitale francese. Grazie al suo intervento, a dicembre 2018 cinquanta fra loro hanno trovato una casa e ricevere assistenza medica e sociale.
Petit ha diffuso il suo film anche a scuola e in carcere, presentato proprio dalle sue protagoniste, quelle donne oramai non più “invisibili”: «Ho passato un anno a frequentare i centri di accoglienza e quando sono iniziate le riprese, dato che il film è stato girato in sequenza, ho visto a poco a poco lo sguardo delle ospiti del centro di accoglienza illuminarsi, le ho viste alzare la testa, ridere, raccontarsi. Questo film non appartiene a me, ma a loro, che hanno più titoli di studio, parlano più lingue e hanno maggiori competenze di me, ma hanno perso tutto in un attimo a causa di lutti, separazioni o violenze. Quello che è capitato a loro potrebbe succedere a chiunque: un amico, un parente, noi stessi. Quando te ne rendi conto cambi prospettiva, smetti di giudicare e ti rimbocchi le maniche».
“Sorry We Missed You”
«Non lavori per noi, ma lavori con noi. Non vieni assunto, ma vieni integrato». Un’espressione lapidaria, quella del nuovo film del regista britannico 83enne Ken Loach, che ne sintetizza con la massima efficacia non solo il tema portante ma anche l’acuta e urgente critica sociale. Un’urgenza e un assillo che continuano a tormentare mente e cuore di Loach, mai domo di fronte a qualsivoglia forma di diseguaglianza che flagelli la vecchia Europa (e – nell’epoca della globalizzazione – anche il resto del mondo), che lui continua indefesso a raccontare sin dagli esordi della sua carriera cinematografica.
Da “Riff Raff” (1991) e “Piovono pietre” (1993), passando attraverso “Ladybird Ladybird” (1994), per arrivare a “Io, Daniel Blake” e a quest’ultimo “Sorry We Missed You”, l’attenzione e l’impegno da attivista per i diritti civili del regista si trasformano in storie dove ad assurgere al ruolo di protagonisti (di frequente – per assecondare la vocazione neorealista di Loach – interpretate da attori poco conosciuti o addirittura da persone comuni) sono i più deboli, le fasce indifese e fragili di una società sempre meno vivibile e a misura d’uomo.
In “Sorry We Missed You” il nucleo nevralgico è incarnato da Ricky Turner (Kris Hitchen), che ha deciso, fra molti e pesanti sacrifici, di comprarsi un furgone e lavorare in proprio come corriere, e dalla sua famiglia: la moglie Abbie (Debbie Honeywood), infermiera a domicilio, e i due figli adolescenti Seb (Rhys Stone) e Liza (Katie Proctor).
È qui, dentro e fuori le pareti domestiche, che inizia la distillata discesa all’inferno di Ricky e dei suoi: con quel lavoro solo apparentemente autonomo, solo esteriormente simbolo del moderno e funzionale approccio ai ritmi lavorativi del post-globalizzazione. La presunta fine della dipendenza padronale, la collaborazione tra azienda e lavoratore, come in una sorta di neo-imprenditorialità condivisa (ben rappresentata, emblematicamente, dal titolo, quel riferimento all’avviso che viene lasciato ai clienti che è impossibile raggiungere): una schiera di falsi miti, di cui Ricky fa le spese, dolorosamente, sulla propria pelle e su quella dei propri cari.
La quotidianità dei due genitori e dei loro figli diventa, così, nel ventisettesimo film di Loach (ancora una volta ambientato, come il precedente, nella Newcastle operaia, sulla base dell’ottima sceneggiatura di Paul Laverty), un saggio orrorifico di cinéma vérité, in cui i personaggi corrono e vengono sbalzati via gli uni dagli altri a causa degli inderogabili e perversi ritmi lavorativi: Ricky, strangolato dall’impellenza delle consegne, non ha tempo neppure per i propri bisogni fisiologici, Diane trascorre ore alla fermata dell’autobus, fornendo istruzioni telefoniche su come gestire le incombenze domestiche alla figlia undicenne, mentre il figlio maggiore, diciannovenne, entra in piena crisi di ribellione verso l’autorità paterna e la famiglia si disgrega.
In questo girone infernale da cui è impossibile uscire perché frutto dell’involuzione malata del sistema, gli attimi tranquilli o sereni, in cui ritrovare l’identità personale e familiare sono rari e, sotto questo profilo, commoventi, per la consapevolezza che suscitano nello spettatore di ciò che noi tutti, in misura più o meno grande, stiamo perdendo o a cui abbiamo rinunciato per un obiettivo di benessere illusorio.
“Sorry We Missed You” è un concentrato del Loach dell’ultimo decennio (coadiuvato da un cast credibile e convincente): nulla di nuovo, se non – dal punto di vista tematico – l’adeguamento alle problematiche derivanti dai nuovi metodi di sfruttamento del lavoro, ma con una capacità rappresentativa inalterata e un’adesione ancora più ferma e appassionata alle miserie e sofferenze dei propri personaggi, realistico specchio di una società impietosa, votata all’homo homini lupus e alla distruzione irreversibile delle risorse.
«Spero che il film comunichi la sensazione che tutto questo è qualcosa di intollerabile, qualcosa che non possiamo sopportare», ha dichiarato Loach nel corso della conferenza stampa di presentazione del film, avvenuta al cinema Quattro Fontane di Roma lo scorso dicembre. «Sono le esigenze delle grandi imprese a far sì che le cose possano essere così, e il manager del deposito lo spiega nel corso del film. C’è concorrenza tra questo deposito e tutti gli altri depositi, e il lavoro verrà dato a chi è più veloce, più economico e più affidabile. Il costo di tutto questo è una classe operaia che è sfruttata oltre ogni limite. Sappiamo che il capo di Amazon è l’uomo più ricco al mondo. E questa diseguaglianza così marcata è qualcosa che non si può sopportare. Non è solo la diseguaglianza, è la distruzione del pianeta. Ciascuno di quei furgoni non fa che bruciare combustibili fossili. Ogni pacchetto viene trasportato da un furgone che brucia benzina. E questo colpirà i figli dei borghesi tanto quanto colpirà quello dei figli della working class».
“Le invisibili” (Les Invisibles)
Regia: Louis-Julien Petit
Origine: Francia, 2019, 102’
Sceneggiatura: Louis-Julien Petit, con Marion Doussot e Claire Lajeunie dal libro “Sur la route des invisibles – Femmes dans la rue” di Claire Lajeunie
Fotografia: David Chambille
Montaggio: Nathan Delannoy, Antoine Vareille
Musica: Laurent Perez Del Mar
Cast: Corinne Masiero, Audrey Lamy, Déborah Lukumuena, Noémie Lvovsky
Produzione: Elemiah
Distribuzione: Teodora Film
“Sorry We Missed You”
Regia: Ken Loach
Origine: Gran Bretagna, 2019, 101’
Sceneggiatura: Paul Laverty
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Jonathan Morris
Musica: George Fenton
Cast: Katie Proctor, Debbie Honeywood, Kris Hitchen, Rhys Stone
Produzione: Rebecca O’Brien
Distribuzione: Lucky Red