La crisi orafa a Valenza nei primi anni del Novecento
Un nuovo viaggio nella storia della Città del Gioiello
VALENZA – Le vendite valenzane di oreficeria, che, all’inizio, nel primo Ottocento, erano rivolte al mercato locale poi si sono gradualmente aperte a livello nazionale; le prime esportazioni, invece, risalgono al tardo Ottocento ed erano principalmente dirette verso l’America. In seguito, la maggior parte delle vendite avviene grazie a dei viaggiatori valenzani (Garlando, Gobbi, Melchiorre, ecc.); spesso è il proprietario stesso del laboratorio, un motore trainante, che visita la clientela con sviluppate capacità di capire certe cose in questo periodo di rivoluzioni tecniche ed economiche in atto.
La produzione di gioielli segue, però, un percorso altalenante (i fondatori dell’arte orafa locale sono stati: Caramona che fece nascere Canti o Conti, Canti che generò Morosetti, Morosetti che diede vita a Melchiorre). Dalle tre imprese esistenti verso la metà dell’Ottocento, si giunge a un massimo di 25 imprese nel 1889, per poi scendere a 11 nel 1901. Dopo, pur con continue oscillazioni, il numero andrà crescendo continuamente, salvo il periodo frenato della guerra, quando sarà impossibile l’approvvigionamento dei metalli nobili e delle pietre preziose.
Nel 1887, le 19 imprese hanno 304 addetti, di cui 180 maschi e 124 femmine; tra di loro, una sessantina sono definiti fanciulli, o per lo meno considerati tali. La manodopera maschile è preponderante su quella femminile. Le donne si occupano di lavori non specializzati, come la pulitura di oggetti d’oro, che richiede una certa pazienza, ma non una particolare abilità e preparazione. L’orario giornaliero è di circa dieci ore. Salari e condizioni di lavoro sono stabiliti in relazione al tipo di impresa e all’abilità del lavoratore.
Le imprese minori sono maggiormente soggette alla congiuntura ed hanno una produzione di scarso pregio. Sorgono e scompaiono facilmente, con una progressiva differenziazione qualitativa della produzione. Dal 1895, una spinta innovativa verso le nuove tecniche di produzione ha luogo con l’erogazione del gas combustibile e, poi, con l’impiego di motori elettrici.
Gli orafi per saldare usavano la “lumiera” che funzionava ad alcool con una fiammella che veniva soffiata con una cannuccia sul punto da saldare, con l’avvento del gas, per saldare si usa un cannello chiamato in dialetto “salumò” che deriva dalla parola francese chalumeau, molto più agevole e veloce.
A cavallo del vecchio e del nuovo secolo, nell’oreficeria si manifesta una crisi improvvisa che crea uno smarrimento generale a Valenza. Presi dalla febbre del guadagno, da tempo i fabbricanti di gioielli locali hanno fatto a gara a chi produceva e guadagnava di più. Molti di loro, pur essendo in condizioni finanziarie poco solide, affetti da un esagerato ottimismo per il credito che veniva loro concesso, hanno comprato pietre preziose e metallo a debito senza alcun discernimento. A farla da padrone non è solo l’incompetenza, ma anche l’imbroglio. Le perdite e i fallimenti si susseguiranno a getto, facendo sorgere screditi e risentimenti feroci. Questi fabbricanti brillano per un’ottusità economica sconsiderata: inetti nel capire, inadeguati nel decidere e assediati da vicini non troppo amichevoli. Servirebbe un sistema più coeso, che al momento non si vede e che, peggio, nessuno vuole. L’oreficeria valenzana deve reggere la concorrenza degli orafi tedeschi e francesi, già molto affermati e con congrui capitali. La produzione locale traballa, ma non cede, la battaglia avviene sul piano della lunghezza dei pagamenti. I valenzani hanno un prodotto migliore e meno costoso, ma faticano a reggere lunghi pagamenti.
I dissesti di coloro che si sono improvvisati imprenditori senza averne la capacità e i mezzi provocano anche la rovina di altri che, invece, avrebbero le condizioni per resistere alle circostanze della sfavorevole congiuntura creatasi. In giro c’è molta delusione.
Nei primi anni del Novecento, a Valenza, che conta circa 11mila abitanti, ci sono circa una ventina di fabbriche orafe, che occupano quasi 300 lavoratori; erano 17 nel 1897, con 320 addetti – 206 maschi e 114 femmine, tra cui un’ottantina di fanciulli – diventeranno una trentina nel 1908, con quasi 500 addetti. Ci sono anche numerosi lavoratori orafi a domicilio, armati di entusiasmo e di illusioni, alcuni dei quali passeranno in futuro alla condizione di imprenditore. La maggior parte di loro proviene dai banchi di lavoro e dispone solo di esigui risparmi, un capitale fisso utile solo per il primo investimento in semplici attrezzature.
Nel 1902, per affrontare in un altro modo la crisi, a Valenza viene fondata la Cooperativa di Produttori di Generi di Oreficeria, società anonima a capitale illimitato, i cui soci sono in gran parte operai specializzati che hanno sottoscritto azioni e quote, ma c’è chi la ritiene una macchina solo tecnica e finanziaria senza una necessaria funzione sociale.
Dopo l’esposizione di Milano del 1906, la crisi si attenua e sorge il gioiello di argento su oro, che permette la fabbricazione di oggetti artistici come anelli, spille ecc. a prezzi più ragionevoli. Presi dalla febbre del guadagno e circondati da un nuovo ottimismo, che, dato i precedenti, dovrebbe lasciare qualche dubbio, diversi piccoli artigiani orafi bramano di diventare ricchi in pochi anni.
Ogni giorno piovono a Valenza sedicenti venditori di brillanti ebrei e armeni provenienti generalmente da Milano, che, con una bella dose di faccia tosta, spingono al credito le nuove ditte che aumentano di continuo. Diverse di queste sono modesti laboratori a domicilio, che cercano di farsi largo tra aziende già affermate, manifestando un ingenuo ed esagerato ottimismo per il credito che viene loro concesso, comprando brillanti a credito senza alcuna ponderazione, agendo come servi sciocchi del capitale e dell’interesse. Il finanziamento mediante crediti bancari di solito è ottenuto con lo sconto di cambiali rilasciate a lunga scadenza dai clienti all’atto della vendita dei manufatti, cosa che permette di riempire il vuoto di capitale circolante presente. Anche l’acquisto di materie prime è principalmente finanziato con lo strumento cambiario.
La principale commercializzazione del prodotto orafo locale, però, è svolta da aziende consolidate, dotate di un certo capitale (Bonafede, Caniggia, Cavallero, Cavalli, Gaudino Massimo, Marchese Vincenzo, Melchiorre, Peroso, Scalcabarozzi, Vecchio, Visconti, ecc.). Coloro che, invece, hanno deciso di mettersi in proprio sprovvisti di moneta sono costretti a indebitarsi, ricorrendo a prestiti bancari a elevato tasso di azzardo, soprattutto con il Banco Visconti (specializzato nel lavoro di banchetta dell’oro), a tassi piuttosto alti o a cambiali a lunga scadenza sulla base di una fiducia personale più che su garanzie effettive.
Crescono a sproposito anche i fornitori. Si vedono passeggiare per Valenza eleganti e sedicenti commercianti, generalmente milanesi, che dopo aver preso brillanti all’estero, vogliono collocarli nella terra promessa di Valenza, diventata il paradigma del profitto. Questi “bagaloni”, come li chiamavano i valenzani, offrono lauti pranzi, ottimi vini e, poi, tanto credito, pronunciando scemenze e promesse mirabolanti, impossibili da realizzare. Ad affare concluso, esigono firme su cambiali a titolo di garanzia, allo scadere delle quali spesso i contraenti si trovano in difficoltà; per avvallare i titoli hanno chiesto aiuto anche ad amici e parenti, scatenando intensi risentimenti e umiliazioni futuri, sebbene non fosse nelle loro intenzioni.
Dopo pochi anni, verso la fine del 1909, nell’oreficeria si accentuano i sintomi di una crisi tremenda, ancor più grave di quella degli anni precedenti. Da allora quasi niente è cambiato; anzi, semmai è peggiorato per una serie di concause negative. Dal 1910, un enorme danno all’economia locale, con la rovina di diverse fabbriche orafe, è provocato dal fallimento della Banca Visconti, che scontava cambiali senza guardare troppo per il sottile, fallimento (soprattutto per il ritorno insoluto di effetti presi allo sconto dagli orafi) aggravato dalla guerra libica nel 1911, che provoca l’aumento dell’aggio sull’oro, il rialzo dello sconto e restrizioni generali. Difficile pensare a vie d’uscita, le aziende orafe, per le loro piccole dimensioni, sono nate e scomparse con una certa facilità, sono state generalmente dipendenti dalle alterne vicende congiunturali, ma ora si sta manifestando una crisi pesante, con una consistente riduzione della produzione e delle giornate lavorative; un processo disgregativo e dissolutorio che accelera il declino. La ragione cede il passo alla rabbia e a reazioni isteriche.
Valenza è stretta in una morsa devastante di inflazione e disoccupazione e anche i profitti industriali sono calati a un ritmo rapido. Nelle ditte con meno di 10 lavoratori si lavora in media circa 60 giorni a trimestre; un po’di più nelle più grandi. I fallimenti, dovuti anche alla necessità di credito per far fronte a pagamenti molto lunghi, sono ormai facili. Il risultato di questo stato di cose è la chiusura di numerose imprese, passando da uno psicodramma all’altro, e non si tratta di un fenomeno passeggero, ma di una calamità destinata a proseguire.
Per riassumere, possiamo affermare che la crisi orafa valenzana di inizio Novecento si può addebitare, nella sua accezione originaria e precisa, alla scarsa esperienza nel commercio di un articolo così delicato, all’acquisto a prezzi troppo elevati delle materie prime, alla leggerezza nell’accordare i fidi, alla scarsità dei mezzi finanziari rispetto all’estensione degli affari, ai rilevanti interessi pagati e alle perdite subite dalla clientela; difficile fare peggio, anche se alcuni restano a lungo intrisi di “sindrome dei migliori”.
Ma anche chi governa la città ha dimostrato di non avere alcuna idea su come affrontare la difficile situazione, con assenza di misure a sostegno. I politici locali sono ossessionati dalla torta politicante contribuendo tutti allo sprofondo della produzione orafa locale, cullandosi spesso in un racconto economico autoconsolatorio.
È un ricordo malinconico di un periodo caduto ormai nell’oblio, che ha prodotto pene, dolori e ravvedimenti a tanti dignitosi promotori della gloriosa cavalcata dell’oreficeria valenzana. Anche se Niccolò Macchiavelli già ai suoi tempi diceva: meglio fare e poi pentirsi che non fare e poi pentirsi ugualmente.