Dati sì, ma con giudizio
La scelta di affidarsi ai dati nasconde sempre un rischio di discrezionalità
Uno spettro si aggira, da anni, per gli uffici. Quello dei dati e della necessità di adottare, per chi mastica l’inglese, un approccio “data-driven”.
Giorgia Lupi, designer italiana diventata artista del mondo dei numeri, ha passato mesi a raccontare la sua vita su cartoline. Non con parole, ma con note, crocette, segni grafici. Un giorno scriveva dei caffè bevuti, un altro dei sorrisi regalati. Un diario fatto di dati personali spediti ad un’amica per posta, ancora oggi visibile a tutti sul sito Dear Data. Eppure, è proprio lei a ricordarci che “i dati non esistono”. Una provocazione? Sì. Ma anche un avvertimento.
I dati, infatti, non cadono dal cielo come la pioggia. Li raccogliamo noi. Li selezioniamo, li filtriamo, li coloriamo. Non sono neutrali, non sono oggettivi, non sono innocenti. Sono costruiti, come una narrazione. E come tutte le narrazioni, possono servire a spiegare o a manipolare.
Contro il mito dei dati
Eppure le aziende, i governi, le app che usiamo ogni giorno si affidano al mantra “data-driven” come se fosse il Santo Graal del buon senso. Basta una tabella per convincersi di avere ragione. Ma la verità è che i numeri da soli non decidono nulla. Al massimo, fanno da specchio. E anche gli specchi, si sa, riflettono solo quello che c’è davanti.
È tempo di cambiare approccio: i dati servono, ma vanno letti, interpretati, capiti. Sono ottimi consiglieri, pessimi decisori. E soprattutto contestualizzati. Dietro ogni grafico c’è un essere umano che ha deciso cosa misurare e come mostrarlo. La realtà non è una dashboard.
Affidarci ai dati è utile. Affidarci solo ai dati, è rischioso. Perché, in un mondo dove gli algoritmi non si limitano a suggerirci i film da guardare su Netflix, ma sono impiegati per assegnare incarichi e mansioni, la scelta dei dati con cui gli algoritmi sono addestrati non è una solo un’operazione di trasparenza, ma di giustizia.