Valenza nel 1951
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Nel 1951, Valenza si presentava come una piccola città in bilico tra la memoria di un lontano passato (in buona parte rurale) e la promessa di un futuro sempre più industriale (gioiellerie e calzature). Questo scritto si propone di delineare un ritratto, una «fotografia» istantanea, di alcune attività proprio all’alba del boom economico, in un periodo di transizione cruciale, di dinamismo imprenditoriale e di mutamenti radicali della composizione sociale. Un’epoca in cui la vecchiaia proscriveva molto prima di adesso.
La guerra, con le sconcertanti pile di inutili morti e le sue cicatrici ancora fresche, aveva lasciato un segno profondo, ma Valenza mostrava i segnali di risveglio e di una repentina ripresa. La cittadina contava allora 13.650 anime, una cifra destinata a crescere esponenzialmente negli anni a venire. La sua produzione orafa-calzaturiera, e le opportunità di lavoro che si profilavano, attirava una forza lavoro consistente dai paesi limitrofi, dalle campagne del Veneto, e dalle regioni più lontane del Sud.
Questo afflusso migratorio, un vero e proprio esodo senza arte ne parte, inizialmente accucciato e allineato, avrebbe trasformato radicalmente il volto demografico e sociale di Valenza nel corso del decennio successivo.
Il tessuto urbano di Valenza, nel 1951, era ancora fortemente legato alla sua conformazione originaria. I valloni, profonde depressioni naturali che solcavano il territorio, non erano ancora stati completamente ricoperti e rappresentavano una barriera fisica e visiva.
Via San Salvatore, come la conosciamo oggi, non esisteva, e viale Dante si arrestava ben prima di raggiungere viale Santuario. Il lato sinistro di viale Dante, per chi proveniva da Alessandria, era uno scenario agreste e selvaggio: un vallone incolto, brulicante di gaggie, sterpaglie, e punteggiato da poche, isolate case di campagna. Un paesaggio simile si ripeteva lungo viale Cellini, l’allora via Firenze, delineando un confine netto tra l’abitato e la natura circostante. Via Trieste, a quell’epoca, segnava il limite del centro urbano. Oltre quella linea, si estendeva la campagna aperta, un mosaico di campi coltivati e sentieri sterrati, costellata di case sparse che si protraevano fino a Mazzucchetto, dove iniziava a tracciarsi un piccolo, nascente quartiere.
Anche il volto del mercato, cuore pulsante dell’economia locale, era in fase di mutamento. I mercati settimanali, appuntamenti fissi per la comunità valenzana, continuavano a svolgersi con la stessa cadenza e nello stesso luogo consacrato da secoli di tradizione. Il giovedì e il sabato di ogni settimana, piazza XXXI Martiri (la piazza del Duomo) si animava di voci e fragranze, con le bancarelle che si estendevano ai piedi del Municipio, a testimonianza di un legame indissolubile tra l’amministrazione cittadina e la vita economica della sua gente. Nonostante l’apparente continuità, però, si percepivano segnali di cambiamento nelle merci offerte, nei venditori provenienti da luoghi più distanti, e nell’atteggiamento degli acquirenti, sempre più attratti da nuovi prodotti e nuove possibilità di consumo. Il mercato, insomma, era uno specchio fedele di una società in rapida evoluzione, un microcosmo che rifletteva le speranze e le ambizioni di una Valenza pronta a spiccare il volo verso un futuro di prosperità.
La Festa Patronale, un tempo cuore pulsante della comunità, si presentava ora in declinazioni ben distinte, testimonianze di un mondo in trasformazione. La festività di San Massimo, relegata ormai a una mera ricorrenza religiosa, aveva visto svanire la sua antica popolarità, ridotta a un flebile ricordo nei cuori degli anziani. Lontani i tempi in cui la processione animava le vie del paese, riempiendole di colori, suoni e profumi sacri. In netto contrasto, la data del 15 aprile evocava anche una «festa di primavera», un evento meno vincolato alla sacralità e più legato alla terra e ai suoi animali. Era un’occasione in cui gli ultimi bagliori di una civiltà contadina, non ancora del tutto soppiantata dal luccichio seducente dell’oreficeria, si rappresentava, attirando persone desiderose di rammentare le proprie radici. Inutilmente costosa, finirà abbandonata come gli stracci usati.
San Giacomo, al contrario, prosperava, perpetuando una tradizione secolare che combinava sapientemente svago e commercio nel mese di luglio. Una vera e propria festa d’estate, vibrante di energia e di vivacità, che inondava la città di allegria. Le giostre, con le loro luci scintillanti e i suoni assordanti, attiravano i bambini, mentre la musica dal vivo, che risuonava nell’aria, accompagnava principalmente le danze serali.
L’odore dolciastro dello zucchero filato, un piacere irresistibile per i più piccoli, si mescolava al profumo più robusto, ma altrettanto genuino, delle mucche, dei vitellini, dei cavalli e dei maestosi tori da monta, esposti con orgoglio in viale Oliva. Questa festa e vivace esposizione, si snodava tra le scuole ex-Costanzo Ciano, da poco ribattezzate Don Minzoni in segno di cambiamento, e la piazza della Pesa, poi Italia, oggi piazza Gramsci, luogo principale di incontro e di scambio.
A margine della fervente attività produttiva, si trovava da tempo un gruppo di associati agli Orafi, Gioiellieri, Argentieri, Orologiai ed Affini, un’istituzione nazionale ormai attecchita nel tessuto economico locale, con sede presso l’elegante albergo Roma, situato in corso Garibaldi, arteria pulsante della città.
Questa associazione d’imprese orafe valenzane venne rifondata nel giugno del 1945, con il nuovo presidente Dante Fontani, un orafo di origine toscana che profumava di popolo, quindi «super partes», ex operaio della ditta Illario, membro del CLN di Valenza. Al suo fianco, come segretario, fu designato il rag. Mario Genovese, la cui precisione e competenza amministrativa si rivelarono fondamentali per la gestione delle prime, complesse fasi di avvio. Come vice presidente fu nominato Venanzio Vaggi, figura che, insieme al resto del team dirigenziale, contribuì a definire le linee guida e gli obiettivi dell’associazione.
La sede iniziale, in via provvisoria, fu individuata presso l’albergo Croce di Malta, un punto di riferimento nella Valenza del dopoguerra. Tuttavia, la volontà di radicarsi e di offrire un servizio più strutturato ai propri associati spinse il Consiglio a deliberare, già il 15 settembre 1945, l’affitto di una stanza più consona presso l’albergo Roma. L’inaugurazione di questa nuova sede, celebrata con un «trattenimento musicale e vocale» la sera del 6 ottobre, rappresentò un momento di festa e di coesione per la comunità orafa. Nonostante l’incasso di 8.520 lire, la serata generò una spesa di 9.800 lire, un dato che il rag. Genovese, con la sua meticolosità, annotò scrupolosamente nei registri contabili, testimoniando la trasparenza e l’attenzione alla gestione delle risorse fin dai primi passi dell’associazione. Nel 1947, la sede rimase invariata, segno di stabilità e continuità, Il rag. Luigi Illario, membro di spicco e ariete di sfondamento, assunse la carica di vice presidente, rafforzando ulteriormente il legame dell’associazione con le figure più influenti del settore. Presidente e segretario, Fontani e Genovese, con gli occhi spesso rivolti al cielo, mantennero saldamente le redini, garantendo la direzione e l’amministrazione dell’associazione.
Dopo questa fase iniziale, tuttavia, la storia dell’Associazione Orafa sembra avvolta da un velo di mistero, un periodo di “black-out” di cui sono rimaste poche testimonianze documentali. Era l’epoca della Guerra Fredda, un contesto internazionale segnato da tensioni e divisioni ideologiche che inevitabilmente si rifletterono anche all’interno della categoria orafa. I rapporti tra i membri si fecero più freddi e distanti, con profonde spaccature politiche che minacciavano la coesione interna e con interessi a volte contrapposti. L’associazione, pur proseguendo la sua attività, operava in modo più discreto, quasi in sordina, ma con due pilastri fondamentali che ne impedirono la completa scomparsa: il segretario rag. Genovese, che assunse la carica di presidente, e il rag. Vignolo, nuovo segretario, garante della correttezza dei bilanci e dei verbali, custode della memoria storica e della regolarità amministrativa. Questi due uomini, con la loro dedizione e integrità, permisero all’associazione di superare un periodo difficile e di continuare a rappresentare gli interessi della categoria orafa valenzana.
La fine del 1957 segnerà poi un punto di svolta cruciale per l’Associazione Orafi Valenzani (AOV), una vera e propria primavera che darà inizio a un periodo di crescita e consolidamento senza precedenti. In questo momento di rinascita, Luigi Illario assumerà la presidenza e l’impegno totale, avviando una leadership lunga e proficua che si protrarrà ininterrottamente fino al 1975. Sotto la sua guida, l’AOV diventerà il motore trainante di tutte le principali realizzazioni che caratterizzeranno l’oreficeria valenzana e vedranno la categoria orafa locale raggiungere vette di eccellenza in termini di creatività, innovazione e qualità del prodotto, consentendo l’enorme sedimento d’arte e tecnica orafa che questa città ancora oggi gode. Ma l’influenza di questa associazione non si limiterà al solo comparto orafo, coinciderà anche con uno sviluppo impressionante di Valenza, che nel frattempo si trasformerà radicalmente con marcata evidenza tra il pleonastico ego dei suoi cittadini.
Da un piccolo centro di circa 13mila abitanti, nel 1951 Valenza assisteva a un’esplosione demografica, arrivando più avanti a contare ben 23mila residenti. Questa crescita esponenziale della popolazione era inevitabilmente accompagnata da un aumento proporzionale del giro d’affari, testimoniando la vitalità e la prosperità dell’economia locale, fortemente legata all’industria orafa. In sostanza questo nuovo periodo rappresentò un’epoca d’oro per l’oreficeria locale e per l’intera comunità valenzana.
Le aziende orafe valenzane con i propri lavoratori ruppero ogni limite alle previsioni precedenti, aiutate dall’apertura dei mercati internazionali: passando dalle 335 unità nel 1951 alle 575 nel 1961, con un saldo positivo di 240, pari al 71,64%, e gli addetti dalle 1.972 unità alle ben 4.068, con un saldo positivo di 2.096, pari al 106,3%. Le nuove forze imprenditoriali, variamente definite, erano formate prevalentemente da ex dipendenti che spesso diventavano fornitori della stessa impresa da cui provenivano.
A inizio anni Cinquanta le associazioni ricreative, culturali e sportive che comparivano in un indicatore stradale pubblicato, testimonianza di una vivace vita sociale e collettiva, erano ben undici, un numero considerevole che rifletteva la ricchezza degli interessi e delle passioni degli abitanti di Valenza. Queste associazioni citate, anche grazie all’appartenenza politica, non si limitavano a un’unica attività, ma spaziavano in diversi ambiti, tessendo una fitta rete di iniziative che animavano la città.
Alcune, con cadenza annuale, organizzavano feste da ballo che rappresentavano momenti di svago e di socializzazione molto attesi. L’Enal, con il centro sportivo-sociale in via Trieste e con la sede sociale nel Palazzo Pellizzari, era un punto di riferimento importante per gli amanti del ballo, gestendo una rinomata sala da ballo all’aperto. Le serate estive erano animate da musica, luci e risate, offrendo un’alternativa al chiuso dei locali. L’U.S. Valenzana, sotto la presidenza del sindaco Guido Marchese e con la sede operativa presso il frequentato Bar Sport, si faceva promotrice di memorabili veglioni di fine anno presso il Teatro Sociale. Questi eventi, caratterizzati da eleganza e festosità, segnavano il culmine delle celebrazioni festive, attirando un pubblico numeroso e variegato, per le giovani valenzane del tempo quasi una mescolanza tra favola e realtà.
Il mondo della caccia trovava il suo punto di riferimento nell’Associazione Cacciatori, con sede presso l’Armeria Cavalli in corso Garibaldi. Lì, gli appassionati si ritrovavano per condividere esperienze, organizzare battute e discutere delle tematiche legate alla caccia. Gli amanti delle due ruote, invece, gravitavano attorno all’Associazione Moto Club, che aveva il suo quartier generale presso il Caffè del Teatro. Quest’ultimo diventava un punto d’incontro importante per i motociclisti, un luogo dove scambiarsi consigli, pianificare gite e condividere la passione per le moto. L’Associazione Pescatori, aveva il suo regno presso Sforzini, un negozio ben fornito di articoli da pesca, dove si trovava «di tutto», come si diceva in città. Il già anziano Sforzini, meglio noto ai valenzani come Sfursì, era una figura iconica, un punto di riferimento per i pescatori locali, e il suo negozio, situato in corso Garibaldi all’altezza della Farmacia Centrale, un vero e proprio centro nevralgico per la comunità dei pescatori.
All’epoca, fiorivano i gruppi che praticavano sport: pugilato, atletica, motociclismo, ma, soprattutto, calcio, sempre con la Valenzana e la Fulvius. Erano gli sport di squadra a garantire il legame che univa tutti coloro che facevano parte della stessa formazione. Era il tempo in cui la meglio gioventù vedeva nello sport una possibilità di riscatto e d’orgoglio. La Valenzana, nella stagione 1951-1952, si qualificava per il campionato di IV Serie Nazionale 1952-1953.
L’agricoltura aveva 1.231 addetti. Veniva ristrutturato l’Ospedale degli Incurabili, che diventava una casa di riposo. Le abitazioni di proprietà erano 1.218. Alle elezioni comunali il PCI e il PSI ottenevano 20 consiglieri su 30. Il nuovo sindaco era Giovanni Dogliotti. Non c’erano forze pronte a subentrare al potere locale, ma questo non significa che non vi fossero oppositori.
La Democrazia Cristiana, nella sua sede in via Cavallotti, ospitava il CIF, Centro Italiano Femminile; era un luogo, sede di partito, dove socializzare e alla domenica ballare. Il CIF rappresentava un’importante opportunità di aggregazione e svago per le donne valenzane; collegato a valori tradizionali e trascendenti, conquistava il ceto medio e la borghesia, ma poco il popolo.
Palazzo Pellizzari, oltre all’Enal, ospitava anche le sedi del CRAL “G. Calvi” e “A. Gramsci”, meritori circoli ricreativi per i lavoratori che offrivano una vasta gamma di attività e servizi. Infine, sempre in Palazzo Pellizzari, aveva sede l’UDI, Unione Donne Italiane, con la sua presidente Mattacheo Camurati Ernesta, un’associazione impegnata nella promozione dei diritti e della condizione femminile.
Per quanto riguarda l’offerta cinematografica e teatrale, Valenza poteva vantare tre sale più una. Il Cinema Italia, situato inizialmente in viale Vicenza 8, era affettuosamente soprannominato il “Cine dl’Uratòri” (il cinema dell’oratorio), sottolineando il suo legame con la comunità parrocchiale. Ci andavano i ragazzi, ancora eredi del cristianesimo, la domenica mattina, dopo la messa, a vedere le impareggiabili, esilaranti comiche di Ridolini e di Crick e Crock (Stanlio e Ollio), con sottobraccio l’immancabile «Vittorioso», fumetto di avventure che rappresentava un’evasione dalla realtà quotidiana.
Il Cinema Politeama Gervaso, un’istituzione culturale della città, eretto in piazza XXXI Martiri, rappresentava un punto di riferimento per gli amanti della settima arte. Durante l’inverno, ci si rintanava nel suo edificio in stile Art Déco, un po’ austero e ombroso, con le sue linee geometriche e i dettagli ornamentali che raccontavano un’epoca passata. Ma con l’arrivo della bella stagione, il Politeama abbandonava la sua sede invernale per trasferirsi, come una farfalla che spicca il volo, nella più ventilata arena all’aperto sita in via Mazzini. Lì, sotto il cielo stellato, si creava un’atmosfera magica, permeata dal profumo dei gelsomini e dal brusio delle conversazioni. Venivano proiettati i più avvincenti western, storie di eroi solitari, di saloon polverosi e di duelli all’ultimo sangue, che appassionavano il pubblico di ogni età.
Tuttavia, la fruizione di queste proiezioni non era esente da piccole insidie. Unici spettatori indesiderati erano, infatti, i fastidiosi moscerini, attirati dalle luci del proiettore, che volteggiavano intorno agli spettatori, costringendoli a sventolare fazzoletti e a ricorrere a repellenti di fortuna. E poi c’erano gli abitanti della casa di fronte, astuti e parsimoniosi, che dalle finestre e dai balconi delle loro abitazioni assistevano alle proiezioni gratuitamente, organizzando vere e proprie serate cinematografiche private selezionando accuratamente gli amici da invitare, limitando l’accesso a pochi intimi per preservare la visuale privilegiata.
Infine, non si può dimenticare il bel Cinema Teatro, situato in corso Garibaldi, un edificio storico che rappresentava il cuore pulsante della vita culturale cittadina. Come già accennato, in quegli anni, caratterizzati da una grande voglia di divertirsi e di lasciarsi alle spalle i tragici orrori della guerra, oltre che spettacoli cinematografici di ogni genere, teatrali di prosa e di lirica e frizzanti serate di cabaret, si svolgevano anche i tanto attesi e sporadici veglioni dello Sport, eventi mondani che attiravano un pubblico elegante e festoso. Ad animare queste serate danzanti erano invitate orchestre locali straordinarie, capaci di interpretare con maestria i brani più in voga del momento, dai ritmi swing incalzanti alle melodie romantiche che facevano sognare gli innamorati.
Passiamo ora ad analizzare il panorama dell’istruzione pubblica a Valenza nel 1951. L’offerta formativa, seppur forse meno articolata rispetto a oggi, era comunque vivace e orientata alle specificità economiche del territorio secondo parametri e valori in parte diversi dai nostri. Spiccava l’Istituto Tecnico a indirizzo commerciale «C. Noé», una realtà importante per la formazione di figure professionali capaci di inserirsi nel tessuto imprenditoriale locale. A dirigerlo con competenza era l’ingegner Paris. Inizialmente, l’istituto trovava la sua sede presso il grande complesso scolastico della città, punto di riferimento per tutti gli studenti valenzani. Solo in un secondo momento, circa una decina d’anni più tardi, l’Istituto Tecnico «C. Noé» sarà trasferito nell’edificio ex Colombino, una struttura carica di storia locale. Quest’ultima, infatti, aveva avuto una precedente vita come filanda, testimoniando l’importanza dell’industria tessile nel passato di Valenza, per poi essere adibita a tomaificio, ovvero fabbrica di tomaie per calzature.
Un’altra realtà importante per la formazione nel campo dell’oreficeria era la Scuola di Disegno per Orafi «Benvenuto Cellini», situata nel grande blocco scolastico in viale Firenze 57. A presiederla era il professor Visconti, una figura di spicco nel panorama culturale valenzano, noto anche per le sue competenze artistiche, che condurrà anche l’IPO. Oggi, l’indirizzo viale Firenze 57 corrisponde all’attuale viale Cellini, dove si trova la Scuola Media Pascoli, a testimonianza di come il tessuto scolastico di Valenza si sia evoluto nello stesso edificio nel corso del tempo. Sempre in viale Firenze trovava spazio la Scuola di Avviamento Professionale Industriale «G.B. Comolli», diretta dall’ingegner Sorrentino, ancora in mezzo al guado tra istruzione uniformata e addestramento professionale.
A completare il quadro dell’offerta formativa vi era la Scuola Media Governativa, preside Arobbio, e situata nello stesso grande edificio con ingresso in via V. Veneto, come la Scuola Elementare, con ingresso dislocato in viale Italia – Oliva e diretta dal dottor Lenti.
Un momento cruciale per l’istruzione orafa a Valenza fu il 1947. In quell’anno, Luigi Illario, figura particolarmente sensibile alle esigenze del settore orafo, si fece promotore presso il Ministero della Pubblica Istruzione per la creazione di una scuola governativa d’oreficeria proprio a Valenza. L’Associazione Orafi Valenzani, comprese immediatamente l’importanza di questa iniziativa e vi aderì con entusiasmo, offrendo un contributo iniziale di lire 25.000. Per avere un’idea del valore di questa somma, basti pensare che con duecentomila lire si poteva acquistare una Fiat «Topolino», un’automobile che all’epoca rappresentava un simbolo di modernità e accessibilità. Quindi, nel 1950, nacque l’Istituto professionale Benvenuto Cellini, un traguardo importantissimo per Valenza e per la sua tradizione orafa. A testimonianza del legame profondo tra la città e l’arte orafa, anche viale Firenze prenderà lo stesso nome dell’istituto, diventando viale Cellini. Nel 1951 Luigi Visconti assunse la presidenza dell’Istituto Benvenuto Cellini.
Questa istituzione scolastica, rinomata ben oltre i confini nazionali, non solo formerà generazioni di orafi, ma rappresenterà anche il terreno fertile per la nascita di una disciplina scientifica innovativa: la gemmologia. Proprio a Valenza, in quegli anni di fervente attività creativa e scientifica, la gemmologia gettava le sue prime radici. Questo sviluppo è stato in gran parte dovuto all’intuizione e alla lungimiranza della Camera di Commercio, che ha istituito un gabinetto gemmologico all’avanguardia e l’ha affidato alla guida sapiente dell’insigne studiosa e ricercatrice milanese Speranza Cavenago Bignami.
A testimonianza dell’importanza della formazione professionale nel settore, l’Istituto Professionale di Oreficeria B. Cellini (IPO), che per la narrazione più benevola (irrilevanti gli abnormi costi e la diffusione della tecnica in altri luoghi) ha svolto un ruolo cruciale nella preparazione di giovani orefici (nessun mente ma, si sa, la veridicità e l’oggettività sono spesso soggettive), subirà una trasformazione sfrontatamente rilevante negli anni Settanta, mutandosi in Istituto Statale d’Arte: per molti, dando vita ad una istituzione scolastica non certo più utile al settore locale orafo di quella lasciata.
A Valenza, nel lontano 1951, la società si delineava attraverso un mosaico di professionisti, pilastri fondamentali per la collettività. Gli avvocati, depositari della giustizia e della legge, si contavano sulle dita di una mano, precisamente cinque. A loro si affiancavano tre dottori commercialisti, custodi dei conti e dell’equilibrio finanziario delle attività locali. La precisione geometrica, citata nella pubblicazione cui ci riferiamo, trovava il suo unico rappresentante in un geometra, figura essenziale per lo sviluppo urbanistico e la gestione del territorio.
La memoria di Valenza, come un album ingiallito di fotografie sbiadite, custodisce ritratti di figure sanitarie tanto ordinarie quanto indimenticabili e per qualcuno perfino soggetti chimerici. Un ruolo di primaria importanza era ricoperto dalle levatrici che assistevano alla nascita di nuove vite, figure angeliche ormai sepolte dalla polvere del secolo scorso. Nel 1951 erano in sei, un numero immaginato ad aumentare negli anni successivi in parallelo con l’aumento demografico, ma non sarà così. Il loro lavoro testimoniava la vitalità valenzana. I nomi di Berlanda Colomba, Biffignandi Teresa, Bina Amelia, Cabiati Maria, Cavallero Miranda e Farina Elisa sono risuonati nei ricordi dei valenzani per lungo tempo, simboli di cura, dedizione e umanità. Erano loro le mani sapienti che in quegli anni accoglievano i nuovi nati, alleviando le sofferenze delle madri, portando gioia nelle famiglie. Un ritmo stremante, che non sarebbe durato ancora molto.
La salute della comunità era affidata alle cure di sette medici chirurghi. Tra questi, spiccavano due figure prettamente valenzane: Gino Amisano e Osvaldo Baiardi. Amisano, oltre ad essere un medico stimato, si distingueva anche per il suo impegno politico, incarnando un modello di cittadino attivo e partecipe, l’amore per la sua città era viscerale. Baiardi, invece, era noto per la sua interdisciplinarietà e la sua profonda cultura. La sua mente brillante spaziava dalla medicina all’economia, lasciando un segno indelebile nella memoria collettiva. Testimonianza del suo eclettismo erano i suoi due libri: «I sistemi socialisti», un’analisi critica e arguta dei modelli economici socialisti, da cui emergeva una profonda insoddisfazione per ognuno di essi, e «Ho fatto tardi all’autobus dell’amore», un’opera di memorie sentimentali che, per anni, suscitò commenti ironici, ma anche intrisi di affetto, da parte dei valenzani. In queste pagine, Baiardi si metteva a nudo, rivelando la sua anima sensibile e il suo sguardo malinconico sulla vita.
Un posto d’onore nella sanità valenzana era occupato dal cav. Cesare Frontoni, il più famoso medico condotto della città, un vero e proprio punto di riferimento per la popolazione. La sua dedizione e il suo impegno furono tali che, in suo onore, gli venne dedicata una via. Oltre al ruolo di medico condotto, il cav. Frontoni era anche medico chirurgo e direttore sanitario del Mauriziano, l’ospedale cittadino situato nella vecchia sede di via Pellizzari. Nonostante l’età avanzata, continuava a visitare le famiglie che non intendevano rinunciare alle sue cure, un gesto che testimoniava la sua profonda umanità e il suo attaccamento alla comunità. Il suo studio, situato in via Venezia, nel prestigioso Palazzo Trecate, oggi via Frontoni, era una stanza modesta, arredata con pochi strumenti, ma che, all’occorrenza, si trasformava in una improvvisata sala operatoria. Lì, tra quelle mura, Frontoni curava i suoi pazienti con competenza, professionalità e un’innata capacità di infondere fiducia e speranza.
Memorabile le sue disavventure automobilistiche: possedeva una Lancia, un’auto di un verde smeraldo intenso, un colore che prometteva agilità e velocità. Cinque marce, sulla carta, rappresentavano un’intera sinfonia di possibilità di guida, un’esperienza lontana anni luce dalle sue ininterrotte «scarpinate a piedi piatti» attraverso le vie di Valenza, sfidando ogni capriccio del tempo e del clima. L’uso di quel «gioiello di meccanica» costruito dalla Lancia si rivelò, però, un’impresa più ardua del previsto. La complessa architettura del cambio si ergeva come un mistero insondabile, un labirinto di ingranaggi in cui il dottor Frontoni si perdeva puntualmente, incapace di superare la seconda marcia.
La leggenda narra di un unico, fortuito, e disastroso tentativo di innestare la terza. Sembra che, per un’inspiegabile congiunzione astrale, la leva del cambio avesse miracolosamente trovato la sua sede, proiettando l’auto, almeno per un breve istante, in una dimensione di velocità sconosciuta. Ma la malasorte, sempre in agguato, aveva teso il suo tranello. In viale Repubblica, una lunga e apparentemente innocua distesa di asfalto, si consumò la tragedia: l’improvvisa accelerazione, unita alla inesperienza del guidatore, portò la Lancia verde smeraldo a «infilzare», come si diceva allora con un eufemismo venato di ironia, due sfortunati agenti motociclisti della stradale. Un incidente che alimentò per anni le chiacchiere, trasformandosi in un aneddoto tragicomico.
Del dott. Vittorio Messina, la memoria popolare conserva ben poco, forse qualche frammento di conversazione sussurrata all’uscita dell’ambulatorio, qualche gesto gentile che permeava il suo operato. Più vivido, invece, è il ricordo del nativo Nilo Ottone, ginecologo stimato e figura di spicco della comunità valenzana. Ci piace, in particolare, celebrare, oltre alla sua attività professionale, la sua coraggiosa e veemente giovinezza, trascorsa tra le fila dei partigiani valenzani anche contro certi fronti dottrinali, un capitolo eroico della sua vita spesso taciuto ma fondamentale per comprendere la profondità del suo impegno civile e la sua incrollabile fede nei valori di libertà e giustizia.
Infine, non si può dimenticare il prof. Virginio Piacentini, radiologo del Mauriziano, un luminare nel suo campo, autore di diverse e apprezzate pubblicazioni scientifiche che contribuirono a elevare il prestigio dell’ospedale. Ma il professor Piacentini è stato anche, e soprattutto, un amministratore illuminato, un uomo con una visione chiara del futuro della sua città. Lo ricordiamo, e lo memorizziamo in particolare a chi non lo ha conosciuto, come sindaco di Valenza negli anni Sessanta, un periodo di grande fermento e trasformazione sociale, durante il quale seppe guidare la città con saggezza e lungimiranza, gettando le basi per lo sviluppo futuro. Il suo nome è indissolubilmente legato a una stagione di progresso e modernizzazione, un’epoca in cui Valenza si affacciava con fiducia al futuro, guidata da un suo cittadino di scienza e di governo, capace di coniugare il rigore della ricerca scientifica con la sensibilità e l’empatia necessarie per amministrare la città.
Tuttavia, è Insolentemente noto che i personaggi eccellenti di un luogo vengono rimpianti più da morti che da vivi, e questo è il destino di molti dei nostri, scomparsi nel massimo silenzio.
Vediamo alla fine quali erano gli alberghi e ristoranti presenti a Valenza nel 1951: «Croce di Malta» via L. Lombarda di Piumetto Fratelli; «Italia» di Villa Chiesa Maria, via Cairoli; «Roma» di G. Raimondi, corso Garibaldi; «Stazione», Viale Milano FFSS; «Stella Polare», Fonte di Monte Valenza; «Verdi», nella piazza omonima. Con smantellante e inevitabile effetto domino, tra equilibrismi e disillusioni, quasi tutti ormai estinti. Alcuni dei principali caffè di allora sono invece rimasti tuttora, mescolati nel gruppo, barcamenandosi, senza stare né in testa né in coda. Nel 1951 c’erano i bar: Achille, Garibaldi, Mazzini, Moro, Politeama, Roma, Sport, Teatro, Torti, Verdi.
Nella piccola pubblicazione del 1951 sono elencati in buon ordine 69 calzaturifici, e 353 aziende orafe.
Roba di un altro tempo e di un altro mondo che non c’è più, una mutazione che è andata largamente più veloce di noi e che ci ha reso diversi, ma non migliori di ciò che eravamo.