Valenza, dai Romani a Carlo Magno
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
6 Luglio 2025
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Il saggio

Valenza, dai Romani a Carlo Magno

L'approfondimento del professor Maggiora

VALENZA – Ricostruire con precisione gli eventi che portarono alla scomparsa della Colonia Romana Valentia si presenta come un’ardua impresa, avvolta nell’oscurità della mancanza di fonti storiche che illuminino questo periodo particolarmente infelice. Tuttavia, cerchiamo di ricomporre un quadro plausibile, penetrando nell’inedito squarcio di storia locale che l’Alto Medioevo ci offre, seppur frammentario.

Il periodo della belligeranza greco-gotica si rivelò fatale per Valenza. Andando incontro al peggiore degli scenari possibili, la località, vulnerabile e indifesa, cadde sotto il dominio di Odoacre, re degli Eruli, prologo di altre brutalità ancor più sciagurate. Nel 476, Odoacre cinse d’assedio Pavia, riuscendo a espugnarla e a saccheggiarla con ferocia, non risparmiando neppure la nostra zona. Quindi, nel 490, Valenza e i suoi dintorni subirono le terribili incursioni del burgundo Gundebaldo, o Gundobado, un sovrano potente che, all’epoca, regnava su una vasta area comprendente parte dell’odierna Francia e Svizzera. Gundebaldo agiva come alleato di Teodorico il Grande, Re Goto che, dal 497, assunse la carica di viceré e governatore d’Italia.

Il conflitto tra Teodorico e Odoacre trasformò le nostre terre in un campo di battaglia, dove anche i Burgundi si abbandonarono a saccheggi e devastazioni senza pietà: non esistevano principi e valori ed è comprensibile tutta la sofferenza di quel mondo. Non contenti di rubare e distruggere, questi invasori trascinarono in schiavitù un numero considerevole di abitanti locali, privandoli della libertà e sradicandoli dalle loro case. La furia distruttrice dei Burgundi fu talmente intensa che, nell’anno in cui Teodorico iniziò il suo governo, decise di alleggerire il fardello fiscale dei servili valenzani, abbonando loro ben due terzi delle imposte dovute. Questa misura, sebbene tardiva, testimonia la gravità della situazione e la profondità delle ferite inferte ai valenzani.

Nel corso del V secolo d.C., la Valentia romana, un tempo forte e ben fortificata, con il suo imponente “Castrum”, venne sistematicamente rasa al suolo dagli invasori barbari in eterno conflitto fra loro. La sua posizione strategica la rendeva un intralcio scomodo da non lasciarsi alle spalle, una potenziale base per una futura ribellione o un punto di forza per un nemico. Tuttavia, non tutto andò perduto. Tre piccoli paesi, le frazioni che fungevano da cintura rurale e abitativa del nucleo militare, i quartieri marziali creati dall’imperatore Valentiniano, sopravvissero al disastro. Questi piccoli insediamenti, custodi di tradizioni e memorie, rappresentarono un barlume di speranza in un’epoca di oscurità e distruzione, ponendo le basi per una futura rinascita.

Alcune fonti suggeriscono che queste località corrispondessero a precise entità ecclesiastiche, forse parrocchie, o a piccoli insediamenti rurali, indicati come «casali». In particolare, si presume che S. Michele di Astiliano, S. Stefano di Bedogno e S. Giorgio di Monasso possano essere i loro equivalenti più innanzi. Tuttavia, la scarsità di documentazione sopravvissuta e l’evoluzione del paesaggio nel corso dei secoli rendono tale identificazione problematica, al limite dell’insolubile.

Ciò nonostante, da quanto emerge dalle ricerche storiche, possiamo affermare con una certa sicurezza che l’immigrazione proveniente da Astiliano svolse un ruolo cruciale nella formazione del nucleo principale della popolazione valenzana. Un numero considerevole di abitanti di Astiliano, spinti da ragioni mai accertate completamente, si diresse in massa verso il Po, contribuendo in maniera significativa alla crescita demografica e allo sviluppo della comunità valenzana. Questo movimento migratorio, quindi, rappresenta un tassello fondamentale per comprendere le origini e la composizione della città di Valenza.

Posto con ogni probabilità in direzione sud-ovest (verso Alessandria) rispetto all’attuale configurazione territoriale, Astiliano o Astigliano, spinto forse da ragioni di sicurezza, strategiche o economiche, deve aver avvertito la pressante necessità di abbandonare l’originaria collocazione. Immaginiamo, quindi, un progressivo spostamento verso una posizione più favorevole, un connubio con altre comunità in un insediamento fortificato sulle rive del fiume Po, arteria vitale e via di comunicazione privilegiata. Tuttavia, l’antica sede di Astiliano non fu abbandonata completamente, bensì trasformata, plasmata da un processo migratorio controllato. Le vicende storiche del V secolo d.C. alimentarono una serie di fattori complessi che progressivamente indirizzarono verso la ricostruzione di Valenza in un sito diverso dall’originario.

In questo contesto, emerge l’importanza dell’insediamento di Astiliano (tanti i nomi scovati, Aestinianus, Artiliano, Astilianum e infine per ultimo Astigliano), strategicamente situato lungo la dorsale collinare (poi Valmadonna), offrendo una posizione naturalmente più protetta. Astiliano si presentava come un borgo già consolidato, dotato di una certa vitalità e capacità di resilienza, che gli permetterà di prosperare e sopravvivere fino al XV secolo.

Questo borgo era un punto di riferimento per il territorio circostante e faceva capo a una chiesa, un edificio sacro consacrato a San Giorgio, testimone di una fede radicata e di una comunità coesa. La tradizione popolare locale attribuisce a San Massimo un ruolo significativo in questa chiesa, affermando che egli vi abbia officiato, conferendo ulteriore sacralità e importanza al luogo. Tuttavia, è necessario affrontare con cautela le leggende che circondano la figura di San Massimo.

Per quel che può valere (direi quasi nulla), molte delle circostanze narrate appaiono poco attendibili e ricche di elementi agiografici. Nonostante ciò, è possibile estrapolare un nucleo di verità da queste narrazioni, un dato che potrebbe rivelarsi cruciale per comprendere il processo di ricostruzione di Valenza. L’elemento più verosimile, secondo questa interpretazione, è che l’artefice della rinascita di Valenza, San Massimo, avvenuta presumibilmente intorno al 490 d.C., fosse, prima di abbracciare la vita ecclesiastica e indossare l’abito talare, un abile e coraggioso difensore militare. Un uomo di valore, capace di guidare e proteggere la cittadinanza, e successivamente promotore attivo della riedificazione del borgo distrutto.

Purtroppo, le informazioni biografiche su San Massimo sono frammentarie e spesso contraddittorie, avvolte da un alone d’incertezza. Si narra che sia nato a Valenza verso la metà del V secolo, attorno al 450 d.C., e che sia morto a Pavia nel 514. Le fonti divergono anche riguardo al periodo del suo episcopato a Pavia: alcune lo collocano nel 496, mentre altre lo posticipano al 513. Ulteriori aneddoti lo descrivono come ambasciatore di Teodorico, re degli Ostrogoti, e come partecipante attivo a concili a Roma, segno di un ruolo di rilievo nella politica e nella religione del suo tempo. Nonostante le lacune e le imprecisioni, la figura di San Massimo rimane un elemento chiave per comprendere le dinamiche che portarono alla risurrezione di Valenza in un nuovo ambiente geografico e storico.

La rinascita, un evento che segnò una nuova pagina nella sua storia travagliata, prende forma in una località che ancora oggi conserva il nome evocativo di Colombina. Questo pianoro, strategicamente situato a sud del corso maestoso del Po, si presenta come un altopiano delimitato e protetto naturalmente da due valloni che ne segnano i confini a est e a ovest. Inizialmente, la neonata Valentia si manifestò in dimensioni modeste, quasi timide, con un perimetro che disegnava un trapezio irregolare nel paesaggio circostante.

Il cuore pulsante di questa nuova collettività era l’attuale piazza Statuto, un punto di riferimento centrale attorno al quale si sviluppava la vita sociale e religiosa. Qui, sorgeva una piccola chiesa, un umile luogo di culto che, secondo la tradizione, fu originariamente dedicato a Santa Maria e successivamente consacrato a San Massimo.

L’insediamento urbano, seppur di dimensioni contenute, si presentava robusto e fortificato. Le mura, erette con cura e perizia, offrivano una protezione solida contro le minacce esterne. A rafforzare le difese contribuivano i profondi avvallamenti naturali, che circondavano e proteggevano l’agglomerato urbano, eretto strategicamente sulla sommità del crinale. Questa posizione elevata e fortificata rappresentava un ostacolo formidabile per qualsiasi incursione di barbari e predoni, rendendo l’accesso al borgo un’impresa ardua e pericolosa.

Tuttavia, la storia di Valenza di quel tempo è segnata da un destino avverso e da una sequenza inesorabile di calamità, un processo dissolutivo in azione per troppo tempo. Come se le precedenti sofferenze non fossero sufficienti, la nuova Valentia venne nuovamente devastata dalle fiammate e dalla furia delle armi, invasori alleati ora con l’uno e ora con l’altro, senza fare troppe differenze. Questa volta, a portare distruzione e morte furono le truppe del famigerato generalissimo bizantino Belisario, sotto il comando spietato di Mungila (a.539). Questo evento tragico si inseriva nel contesto sanguinoso della guerra gotica, un conflitto che infuriava nel Regno d’Italia, all’epoca sotto il dominio dei discendenti del re ostrogoto Teodorico (tra il 535 e il 540). Le conseguenze furono terribili: innumerevoli vittime caddero sotto i colpi della violenza e le persecuzioni si abbatterono sulla popolazione inerme della zona, anche alla mercé di incursioni di tribù bellicose da Oltralpe, i Franchi.

Ma le sofferenze di questo luogo non finirono qui. Anche le truppe di Narsete, un altro generale bizantino al servizio di Giustiniano, durante il lungo e devastante conflitto che vedeva contrapposti Bizantini a Goti, Franchi e Alemanni, pronti a tutto per annientarsi reciprocamente, invasero ripetutamente questo territorio tra il 553 e il 562. Queste incursioni lasciarono dietro di sé una scia di distruzione e desolazione. Il prezzo pagato dalle genti di Valenza, come spesso accade in tempi di guerra, è stato incommensurabile, un fardello di dolore e perdita che segnò profondamente la loro esistenza.

La resilienza di Valentia o Valenza, nonostante le avversità, testimonia la forza e la determinazione dei suoi abitanti nel ricostruire dalle ceneri e nel preservare la propria identità. Il luogo, avvolto da un’aura funerea, in quell’epoca si presentava come un rifugio desolato per i defunti, un borgo sepolcrale infestato da spettri e segnato indelebilmente dalle cicatrici delle pestilenze del 543 e del 565. La speranza era un’entità sconosciuta, un’illusione svanita nel tempo, mentre il degrado civile si radicava in profondità, corrodendo ogni fibra della società. L’unico motore pulsante era l’istinto di sopravvivenza, un’energia grezza e primordiale intrisa di risentimento, se non addirittura di un odio viscerale nei confronti dei popoli esterni, un sentimento che soverchiava qualsiasi altro impulso umano.

A differenza della gloriosa epoca romana, il borgo era privo di una forza militare e incapace a resistere. In tempi di crisi, l’ordinario si trasformò in straordinario: contadini robusti, artigiani abili, giovani vigorosi, ancora vergini dell’orrore, e anziani saggi abbandonarono i loro aratri, i loro strumenti e le loro occupazioni quotidiane, improvvisandosi soldati, pronti a difendere la propria terra e le proprie famiglie con coraggio disperato. Ma parte del territorio, prima coltivato, si ricoprì di boscaglie e foreste.

Nonostante le difficoltà e le minacce incombenti, il porto fluviale sul Po continuò a svolgere la sua funzione vitale, sebbene in uno stato di costante allerta. Sorveglianti vigili, sentinelle silenziose, scrutavano l’orizzonte, pronti a lanciare l’allarme al minimo segnale di pericolo, consci del delicato equilibrio tra la vita e la morte.

Tra gli anni 568 e 569, l’ombra dei Longobardi, un nuovo popolo barbaro proveniente dall’est (Pannonnia), si allungò minaccioso sulla valle del Po. Erano cristiani ariani, portatori di una fede diversa e di costumi sconosciuti. La loro invasione non era una semplice incursione militare, ma un’onda inarrestabile di un’intera popolazione in movimento: una sterminata moltitudine rozza e incolta composta da Gepidi, Bulgari e, soprattutto, Longobardi, che riversandosi dalle Alpi Orientali, si stabilì anche in queste terre senza incontrare una resistenza efficace. Anzi, spinti dalla paura costante di saccheggi e devastazioni, i locali si arresero rapidamente ai nuovi invasori, sottomettendosi al loro dominio nella speranza di mitigare la loro furia, consegnandosi, di fatto, nelle mani di questi nuovi padroni, invasori e invasati al tempo stesso. La valle del Po, un tempo teatro di prosperità e civiltà, si trovò così sull’orlo di un’era di trasformazione, d’incertezza e di conflitto, con il futuro avvolto in una fitta coltre di nebbia.

A Valenza, il silenzio della dominazione romana cedette così il passo al dinamismo delle nuove genti. Alcune famiglie longobarde e di Gepidi, stirpe gotica giunta dalle terre della Serbia, si stabilirono in queste zone, portando con sé usanze e tradizioni radicate nelle loro origini. Inizialmente, mantennero vive le loro consuetudini, un baluardo contro l’assimilazione immediata, tuttavia, la potente influenza della civiltà latina, o meglio, della vibrante realtà locale che si era sviluppata nel tempo, esercitò un’attrazione irresistibile.

Con il passare degli anni, l’inevitabile scambio culturale diventò un processo inarrestabile. Il crogiolo di Valenza si trasformò in un laboratorio di fusione d’identità, un fenomeno accelerato significativamente dalla conversione dei Longobardi al Cristianesimo. Questa conversione, più che un semplice atto religioso, rappresentò un’apertura verso la cultura e i valori del mondo circostante. La suddivisione sociale longobarda tra arimanni (uomini liberi e guerrieri), aldi (contadini semiliberi) e schiavi, sarà però poco applicata ai residenti della nostra zona.

Questo territorio venne inserito nella Neustria, la porzione nord-occidentale della Langobardia Maior del Regno longobardo estesa dalle Alpi occidentali all’Adda, e amministrativamente incluso nel ducato di Pavia.

La lingua latina diventò ufficialmente il veicolo di comunicazione, sancendo l’abbandono graduale della lingua parlata dai Longobardi e dai Gepidi. Nonostante ciò, nella vita quotidiana, il lessico della popolazione locale, intriso di sfumature e inflessioni proprie, si orienterà sempre più verso il volgare locale, un idioma in evoluzione che rifletteva la sintesi delle diverse influenze linguistiche.

La persistenza dell’influenza longobarda si manifesta ancora oggi attraverso la toponomastica. Molti toponimi di località limitrofe a Valenza rivelano origini longobarde, in particolare quelli che terminano con il suffisso «…engo», come Marengo, Murisengo e Odalengo, a testimonianza della loro presenza e del loro impatto sul territorio.

A quel tempo, la popolazione della zona era un intricato mosaico di provenienze diverse, un esempio di «incrocio» etnico che ha generato individui capaci di rivendicare origini in diverse parti d’Europa.

Valenza si configura perciò come un’etnia centrifuga, un nucleo che racchiude in sé una pluralità di identità culturali. L’albero genealogico di ogni valenzano si rivela un compendio di storia europea, con radici che affondano nei popoli Liguri, Celti, Latini, Galli, Sarmati, Gepidi, Longobardi, Burgundi e Franchi. Con gli eventi storici successivi, la lista degli attori che attraversarono e influenzarono Valenza si amplia considerevolmente, arricchendo ulteriormente il patrimonio genetico e culturale dei valenzani. Tuttavia, la belligeranza e il passaggio di eserciti rappresentarono sempre una tragedia ricorrente per le donne del luogo, vittime di violenze e abusi che segnarono profondamente la storia locale. Queste esperienze dolorose contribuirono certamente a forgiare l’identità resiliente e complessa dei valenzani.

La presenza longobarda, un’onda lenta ma inesorabile, si solidificò soprattutto nelle aree immediatamente limitrofe al nostro territorio, lasciando un’impronta indelebile a Lomello, Mugarone e Rivarone. Dopo la scomparsa di re Alboino, quando il trono longobardo restò vacante per la morte senza eredi di Autari (a. 590), Agilulfo «dux Taurini» sposò la vedova Teodolinda e venne proclamato re, il destino del regno longobardo cadde così nelle abili mani, e fino a che punto leali, della regina. Tra le sue numerose residenze predilette, Teodolinda scelse la prospera località di Lomello – residenza della corte reale – riconoscendone l’importanza strategica.

Nella vicina Mugarone, le vestigia della dominazione longobarda resistono tenacemente al passare dei secoli, offrendo uno sguardo privilegiato sul passato. I resti della rocca, testimoni silenziosi di quest’epoca di transizione – i castelli, con la loro architettura complessa, non avevano ancora fatto la loro comparsa nel panorama edilizio – e qualche altra rimanenza muraria, costituiscono un patrimonio storico di inestimabile valore.

A Rivarone, fino ai primi anni del secolo scorso, era ancora possibile ammirare le rovine dell’antica rocca. La tradizione orale narra che la regina Teodolinda, fervente cattolica romana, amasse sostare in questo luogo durante le sue battute di caccia, attratta dalla posizione panoramica e dalla ricchezza della fauna locale. La rocca offriva un rifugio sicuro e un punto di osservazione privilegiato sul territorio circostante.

Mentre alcuni borghi e città della regione prosperano sotto l’influsso longobardo, beneficiando di nuove tecniche agricole e di una relativa stabilità politica, le nostre terre furono purtroppo segnate da un destino meno favorevole. Una serie di eventi naturali catastrofici ridusse la popolazione in uno stato di grave miseria e precarietà. La terribile alluvione del 589, un evento di portata eccezionale, devastò il paesaggio, sradicando abitazioni, distruggendo colture e spazzando via interi vigneti, fonte primaria di sostentamento per molte famiglie.

Ai danni causati dall’alluvione, si aggiunsero i movimenti tellurici del 615, scosse violente che destabilizzarono ulteriormente le fragili strutture. Come se non bastasse, a queste calamità naturali si aggiunse il flagello del morbo della lebbra, una malattia terribile e contagiosa che si diffuse rapidamente, decimando la popolazione e causando un elevato numero di decessi.

In questo contesto già difficile, la maggioranza degli abitanti di Valenza apparteneva alla fascia più vulnerabile della società, costituita da poveri ed emarginati, persone prive di risorse e spesso abbandonate al loro destino. La fragilità economica e sociale rendeva la popolazione particolarmente suscettibile alle difficoltà e alle malattie, accentuando ulteriormente la disparità tra alcune terre fiorenti sotto il dominio longobardo e la nostra zona, segnata dalla sfortuna e dalla sofferenza.

Siamo nell’Alto Medioevo, Valenza, borgo antico e suggestivo, aggrappato tenacemente a una cresta rocciosa che si protende imperiosa verso il fiume Po, offre una vista mozzafiato sulla distesa fluviale sottostante. La sua posizione strategica, pensata per la difesa, la vede ora protetta da una cinta muraria ristretta, testimone di un passato turbolento e di continue minacce. Per anni sembrerà esser venuto meno  anche il Nemico.

All’interno di queste mura, si sviluppa un intrico di vie e vicoli dove trovano posto abitazioni semplici e rustiche, perlopiù concentrate nei pressi dell’attuale piazza Statuto, cuore pulsante del borgo, e lungo la strada maestra, l’attuale via San Massimo, arteria principale che attraversa il paese. A lato della piazza, sorge la chiesa parrocchiale, intitolata a San Massimo, un edificio che rappresenta ben più di un semplice luogo di culto. La chiesa, infatti, funge da vero e proprio centro civico, un ambiente collettivo che trascende la sua funzione religiosa per diventare spazio di incontro e di decisioni importanti. Qui, oltre alle celebrazioni liturgiche, si svolgono atti pubblici di rilevanza comunitaria, come la stipulazione di contratti, la redazione di testamenti e la risoluzione di controversie, testimoniando l’importanza della chiesa nella vita sociale e giuridica del borgo.

La vita degli abitanti di Valenza si svolge principalmente all’aperto, animando le vie e le piazze con un brulicare di attività quotidiane. La strada diventa un palcoscenico, dove s’intrecciano le storie, i lavori, i giochi e le relazioni umane, un luogo di vita e di vissuto condiviso. Le abitazioni, spesso di dimensioni ridotte e prive di comfort, contribuiscono a spingere le persone a trascorrere gran parte delle loro giornate all’esterno, favorendo la socializzazione e la creazione di un forte senso di comunità. Ormai, gli spostamenti all’interno e nei dintorni del borgo avvengono quasi esclusivamente a piedi.

Le antiche vie di comunicazione, un tempo rettilinee e ben mantenute grazie all’ingegneria romana, si sono progressivamente dissestate nel corso dei secoli, diventando quasi inagibili ostacolando i collegamenti con i paesi limitrofi. Il tempo e l’incuria hanno lasciato il segno, trasformando le gloriose strade romane in sentieri tortuosi e accidentati.

L’agricoltura, l’attività predominante nella zona, rappresenta la principale fonte di sostentamento per la maggior parte della popolazione. Tuttavia, questa attività richiede un enorme dispendio di energia umana, data la mancanza di macchine e attrezzi adeguati. I lavoratori della terra, privi di mezzi meccanici, sono costretti a svolgere a mano tutte le fasi della coltivazione, dalla semina alla raccolta, affrontando fatiche estenuanti e ritmi di lavoro incessanti.

I contadini, un tempo liberi e proprietari della terra che coltivavano all’epoca dei Romani, sono scesi al rango di servi della gleba (della zolla), legati indissolubilmente alla terra che lavorano per conto del signore, in un ciclo di dipendenza e sottomissione che si tramanda di padre in figlio. La loro condizione di asservimento, purtroppo, è una triste realtà che segna profondamente la loro esistenza e quella delle loro famiglie.

In un’epoca segnata da una ferrea obbedienza assoluta all’autorità regnante, emergono dettagli cruciali per comprendere la storia e l’identità di Valenza, chiamata in tanti modi e momenti diversi: Valentinum, Valentia o Valencia.

 

Di particolare rilievo è la scoperta di una delibera, databile presumibilmente al 773, proveniente dall’archivio della famiglia Tarony. Questo documento, qualora autentico, rappresenterebbe la testimonianza più antica ad oggi conosciuta riguardante Valenza. La delibera, attribuita a Desiderio, re dei Longobardi, concedeva garanzie di libertà agli abitanti di Valenza, un dettaglio che rivela una sorprendente e inaspettata sintonia tra il potere longobardo e la comunità locale.

Tuttavia, questa fase di relativa armonia e prosperità per Valenza sotto il dominio longobardo sarà di durata limitata. A circa due secoli dall’insediamento longobardo in Italia, precisamente nel 774, la loro dominazione giungerà al termine. Carlo Magno, re dei Franchi, figura cruciale nella genesi del feudalesimo e strenuo difensore della Chiesa – da cui ricevette un solido sostegno – discende in Italia con un esercito imponente. La sua avanzata inesorabile culminerà con la sconfitta epocale di Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi, che aveva regnato sull’Italia dal 757 al 774.

Con la vittoria, Carlo Magno (742-814) non solo si impadronirà del regno longobardo, assumendo il titolo di “Re dei Longobardi”, ma successivamente si affermerà come il primo imperatore del Sacro Romano Impero.

La tradizione locale narra che l’imperatore carolingio, di ritorno dall’unzione di Roma, dopo la solenne incoronazione del Natale dell’800, fece una sosta nella regione di Valenza nel giugno dell’801. Sebbene manchino conferme documentali, la persistenza di questa memoria popolare suggerisce l’importanza che la figura consacrata di Carlo Magno, il padre dell’Europa, rivestì nell’immaginario collettivo della comunità valenzana. Verso la metà del IX secolo, le nostre terre vengono date in feudo a Liutardo vescovo di Pavia da Lotario e Ludovico, insieme con la Plebem Bassignanea.

Sulla scia di un discorso funesto è stata un’epoca di belligeranze preventive, molto simile a quella di oggi, non più «si vis pacem para bellum» dei romani (forse), ma «se vuoi la pace scatena la guerra».

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