La politica a Valenza nel Nuovo Millennio, 2000-2010
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – All’alba del terzo millennio, il passaggio dal precedente si consuma in un’atmosfera carica di ambivalenza, un intreccio complesso di speranze vibranti, tristezze profonde e preoccupazioni incombenti. La globalizzazione, un fenomeno inizialmente timido e discreto, si è manifestata con una crescita esponenziale, diventando una forza dominante modellata e gestita dal potere economico-finanziario sovranazionale, un’entità elusiva e potente che sembra ormai trascendere i confini e la sovranità degli stati.
Il nuovo secolo, il Duemila, si profila all’orizzonte offuscato dall’ombra minacciosa dell’incubo e del panico del terrorismo, una piaga globale che semina paura e instabilità. In questo contesto mondiale in rapida trasformazione, nel maggio del 2001, Silvio Berlusconi fa il suo ritorno alla guida del Paese. Tuttavia, l’Italia e il mondo del Duemila si presentano come realtà complesse e sfaccettate, troppo articolate e mature per essere facilmente assoggettate a schemi politici obsoleti e a retaggi peronisti che appartengono al passato. Berlusconi si rivelerà una figura polarizzante, destinata a essere il più amato e, al contempo, il più maledetto tra i presidenti del consiglio che la nazione abbia mai conosciuto, un personaggio controverso capace di suscitare passioni contrastanti e giudizi diametralmente opposti.
A Valenza molti ideali politici sono crollati e la religione non esiste quasi più, con alcune chiese ridotte a catacombe dove anche Dio misericordioso stenterebbe a riconoscerle. La devastazione selvaggia della vecchia società, purtroppo, ce la siamo prodotta da soli.
Parallelamente agli eventi nazionali, il 16 aprile 2000 Valenza si prepara a un momento cruciale per la sua vita politica. I cittadini sono chiamati alle urne per esprimere la propria volontà e scegliere il presidente e i membri del nuovo consiglio regionale, rinnovare il consiglio comunale e, soprattutto, designare il titolare dello scranno principale a Palazzo Pellizzari, il cuore del potere amministrativo locale.
Germano Tosetti, forte del suo impegno e della sua esperienza, ambisce a ottenere un secondo mandato per continuare a guidare la città (governa da 7 anni e, con l’aria che tira, seguiterà a farlo, nonostante gli acciacchi istituzionali). La sua candidatura è sostenuta da un’ampia coalizione di forze politiche di centrosinistra, che include i Democratici di Sinistra (DS), i Verdi, i Comunisti Italiani, i Democratici e la lista civica «Per Valenza» Centro popolare riformista (che ha confuso il riformismo con le poltrone). Una compagine eterogenea, unita dall’obiettivo comune di garantire un futuro prospero e sostenibile per la città.
In contrapposizione al fronte di centrosinistra, le tre principali liste di centrodestra (Forza Italia, Alleanza Nazionale e Forza Valenza) presentano un candidato giovane e ambizioso, Luca Bariggi, un imprenditore di successo che ha già maturato esperienza politica come consigliere e coordinatore di Forza Italia.
La Lega Nord, invece, propone la candidatura di Fabio Faccaro, un esponente di spicco del partito che intende portare avanti le istanze del territorio e difendere gli interessi dei cittadini del Nord.
La campagna elettorale è segnata da dinamiche complesse e spesso controverse. Nel panorama politico locale, si assiste a migrazioni e cambiamenti di casacca dettati da opportunismo e ambizioni personali. Qualcuno, mosso da un calcolo strategico, ha tagliato la corda dal suo vecchio gruppo per cercare fortuna altrove, mentre qualcun altro, accecato dalla presunzione e dalla smania di potere, ha preferito intraprendere un percorso solitario. Molti altri, infine, hanno cambiato partito con una frequenza sorprendente, seguendo l’onda delle proprie emozioni e dei propri umori, senza una vera e propria coerenza ideologica. Poi, alla prima cosa che a loro risulta sgradevole, torneranno a essere quelli di tempo addietro, perfino quelli della loro giovinezza.
Come ampiamente previsto e discusso nei corridoi del potere locale, il responso delle urne ha poi sancito l’inevitabile: Tosetti, con un confortante 44,7%, e Bariggi, al suo inseguimento con il 37,8%, si sarebbero sfidati al ballottaggio. L’elettorato valenzano ha espresso chiaramente la propria preferenza, premiando il sindaco uscente, ponendolo in una posizione di vantaggio, una sorta di millennio «pole position» elettorale.
Tuttavia, nessuno si illude che il risultato sia scontato. La partita è ancora aperta, il terreno di gioco insidioso e pieno di trappole. Bariggi, tutt’altro che demoralizzato, ha buoni motivi per coltivare la speranza. Egli nel cruciale intervallo tra il primo e il secondo turno ha orchestrato un abile gioco di alleanze, un valzer ipocrita di convenienze. È riuscito ad ottenere l’appoggio, a volte tiepido, a volte entusiasta, della Fiamma, del CDU, d’Insieme e persino della Lega. Quest’ultima è mossa da un rinnovato legame tra Bossi e Berlusconi, una nuova amicizia elegiaca, come qualcuno la definisce con sarcasmo, un’unione locale basata più sull’interesse che sulla genuina affinità. Questo accordo, tuttavia, appare ancora fragile a Valenza, risentendo localmente delle divisioni interne del partito nel Comune di Alessandria, incarnate dalla figura controversa della Calvo.
Tutti, indistintamente, si sono ritrovati alleati con coloro che, fino a un giorno prima, venivano dipinti come acerrimi nemici, avversari irriducibili. Promossi o bocciati, a seconda delle mutevoli utilità politiche del momento. Un trasformismo spudorato, la cifra stilistica di una politica sempre più cinica e calcolatrice.
Ufficialmente, Tosetti, da pensare come esponente di una sinistra stentorea e moderata, promotrice per definizione della democrazia ma ancora ancorata al Novecento, non ha stretto nuovi apparentamenti. Pur forte del risultato del primo turno, la sua posizione appare, in realtà, più vulnerabile di quanto non vuole ammettere. Anche la sua vecchia alleata, Rifondazione Comunista, delusa e amareggiata – ridotta a uno spettro sulla soglia della camera di rianimazione politica – rimane ostinatamente arroccata sull’Aventino. Su troppi temi, le loro posizioni sono talmente distanti, inconciliabili, da rendere impossibile un riavvicinamento. Il loro rapporto è diventato un amaro ricordo, un «c’eravamo tanto amati» intriso di risentimento e promesse non mantenute, un veleno lento che corrode i vecchi ideali.
La campagna elettorale finale si annuncia, quindi, una battaglia senza esclusione di colpi, una lotta all’ultimo voto, dove tutto è possibile, dove anche l’improbabile può diventare realtà.
Il Piccolo – 18 aprile 2000
Forza Italia ha stravinto alle regionali, doppiando i DS, ma il voto per il Comune, è cosa ormai nota, fa storia a sé. Infatti, nell’emotività collettiva, al ballottaggio Tosetti si riconferma con 5.739 voti contro i 4.814 di Bariggi. Il PDS minoritario come entità politica (solo 20%) amministrerà la città. La scelta dei valenzani può essere riassunta in una sola parola: continuità.
Passano pochi mesi e il mondo si ferma a guardare un’angosciante diretta televisiva: quella dell’11 settembre 2001 a New York, quando due aerei dirottati da terroristi si schiantano contro le Torri Gemelle, facendole crollare. Ricominciano le guerre per il mondo. Da quando esiste, il cervello umano non è mai riuscito a eliminarle; forse, servirebbe il nuovo cervello artificiale per demolire l’ostinazione di quello naturale.
Poi, nel 2002, arriva l’Europa dell’euro, caso originale di una moneta unica nata senza unità politica, ma per volontà di un manipolo di banchieri.
Nel panorama politico locale, il Partito Popolare si trova in uno stato di particolare effervescenza, teatro di un processo di trasformazione culminante nella nascita della «Margherita». Anni di incertezza hanno offuscato l’identità storica degli ex democristiani, incapaci di reinventarsi un ruolo incisivo e di riconquistare una visibilità perduta. Una certa cultura cattolica, un tempo pilastro della comunità valenzana, sembra svanita, perdendo la sua influenza sulla società civile.
Il partito ha generato disaffezione e smarrimento nel suo elettorato tradizionale, senza riuscire a conquistare nuovi consensi in altri segmenti sociali. Mauro Milano, l’ultimo segretario popolare, si è trovato a navigare in acque agitate, tentando di raccogliere i frammenti del partito e di mantenerlo a galla, un compito arduo e irto di pericoli. La sua leadership, sebbene animata da buone intenzioni, non è riuscita a invertire la tendenza al declino e al disorientamento.
Contemporaneamente, nei Democratici di Sinistra si assiste a dinamiche interne differenti. Nel dicembre del 2001, Nadia Rossi viene eletta segretario all’unanimità, un segnale di coesione apparente. Il nuovo Direttivo è composto da Barbero, Barrasso, Barrasso M., Battezzati, Bina, Borioli, Bosco, Bove, Busacca, Di Pasquale, Gatti, Ghiotto, Griva, Legora, Lo Giudice, Lopena, Montaldi, Muraca, Oddone, Panelli, Quaroni, Quarta, Rencanati, Rossi, Silvestrin, Tosetti. Mentre il Direttivo dell’Unità di base successivo sarà composto da Barbero, Boiocchi, Borioli, Bove, Bosco, Calligaris, Capuzzo, Carrara, De Giacomi, Fontefrancesco, Gatti, Ghiotto, Griva, Legora, Maranzana, Mensi, Monaco, Montaldi, Muraca, Oddone, Panelli A., Rossi, Siepe, Tosetti, Panelli M., Vecchio.
Alla fine del 2004, per il terzo congresso del partito la mozione di Fassino ottiene un’ampia maggioranza, l’80% dei consensi, mentre il restante 20% va alla mozione Mussi- Berlinguer. L’assenza di voti per altre mozioni suggerisce una polarizzazione del dibattito interno e una leadership consolidata da parte della fazione facente capo a Fassino. Per meglio comprendere la dinamica interna al partito, è utile ricordare come nel 2001, durante il precedente congresso, la mozione Fassino avesse ugualmente ottenuto l’80% dei voti.
Questi risultati sembrano indicare una forte adesione della base valenzana alla linea politica dettata dalla segreteria nazionale. I «capoccia» locali, parafrasando un’espressione colorita, appaiono devoti alle direttive provenienti dall’alto, un atteggiamento forse dettato da pragmatismo politico o dalla volontà di evitare conflitti interni.
In un’eco ironica di un passato ideologico rimosso, sembra che «nessuno sia mai stato comunista come nessuno era mai stato fascista dopo la fine del regime», suggerendo un’opportunistica capacità di adattamento ai venti politici del momento. Tuttavia, questa «conversione» non impedisce loro di inciampare nel «peccato originale ideologico», ovvero di ricadere in vecchi schemi e logiche di potere, evidenziando una certa incoerenza tra la retorica ufficiale e la prassi politica. Questo continuo bilanciamento tra fedeltà alla linea nazionale e compromessi con la realtà locale contribuisce a definire il profilo dei Democratici di Sinistra a Valenza.
La difesa dell’ospedale locale, una battaglia sentita e vissuta con crescente apprensione dalla comunità valenzana, si erge come un loro baluardo contro le decisioni impopolari della Regione Piemonte, amministrata dal berlusconiano Enzo Ghigo. La politica, si sa, è un terreno fertile per interessi divergenti e speculazioni: c’è chi, cinicamente, lucra sul potere, sfruttando ogni spiraglio per trarne vantaggi personali, e chi, con altrettanta malizia, gufa sul collasso istituzionale e sociale, quasi nutrendosi delle difficoltà altrui, gettando zolfo sotto la graticola di una «pruderie» di facciata, una morale ipocrita che nasconde ben altri obiettivi. Non mancano, naturalmente, i cultori della morale a buon mercato, pronti a distribuire patenti di virtù a seconda della convenienza politica (e, spesso, con un’ipocrita doppia morale). Ovviamente, la realtà è ben più complessa e sfumata, e viceversa, le generalizzazioni semplificano e distorcono la verità.
Il 3-4 aprile 2005 si profila nuovamente come un appuntamento cruciale per Valenza: i cittadini sono chiamati alle urne per eleggere il sindaco e il nuovo Consiglio comunale. In un panorama politico in rapida evoluzione, i sindaci si stanno ormai trasformando in una specie di «ras locali», figure sempre più autonome e potenti, disposte a riconoscere ai partiti tradizionali solo la funzione di portatori d’acqua (e, soprattutto, di voti), relegandoli a un ruolo marginale nella gestione del potere locale.
Il centrosinistra, forte dell’esperienza maturata da Gianni Raselli nel ruolo di vice-sindaco (una posizione che Tosetti gli ha offerto e garantito per lungo tempo), lo candida alla carica di primo cittadino. Raselli, abituato a volteggiare abilmente nel centro dello schieramento politico, cerca di arare terreni sempre più discosti da quelli originali, ampliando il proprio bacino di consenso e intercettando voti anche al di fuori della tradizionale area di appartenenza, la DC.
Egli guida un’ampia coalizione, un vero e proprio mosaico politico, composta da ben cinque liste: DS (Democratici di Sinistra), Per Valenza (una lista che fa esplicito riferimento alla Margherita e allo SDI, Socialisti Democratici Italiani), Partito della Rifondazione Comunista, e Valenza Insieme (una lista civica, espressione diretta della società civile valenzana). Un fronte compatto di falce&caviale, almeno sulla carta, che si propone di offrire alla città una visione di governo alternativa e più inclusiva. La sfida si annuncia intensa e combattuta, con un elettorato valenzano sempre più esigente e disilluso dalla politica tradizionale.
Il centrodestra schiera Luca Rossi di Forza Italia, figura di spicco e uno dei primi sostenitori del movimento locale fin dai suoi albori. È giovane quanto basta per apparire dinamico e al passo con i tempi, socialiberale nella misura in cui rassicura l’elettorato moderato, e garbato e affabile quanto serve per conquistare la simpatia anche degli elettori più scettici. Insomma, un preparato damigello della politica locale, che dal lontano 1996 siede in Consiglio comunale, conoscendo bene i meccanismi e le dinamiche del potere.
La sua candidatura è sorretta da una coalizione ampia e variegata, un vero e proprio mosaico politico composto da cinque liste di innamorati a tempo: Forza Italia, Alleanza Nazionale (i cui nostalgici ideali sembrano lontani), l’Unione di Centro, il Nuovo PSI (un’eco sbiadita del glorioso passato socialista) e persino la Lega Nord, in un’alleanza che, a ben guardare, suscita qualche interrogativo sulla coerenza ideologica del fronte.
Accanto a questa compagine ben strutturata, si agitano, in una missione che appare fin da subito disperata, altre liste minori, spesso espressione di movimenti marginali o di ambizioni personali. Alcuni di questi candidati cercano di persuadere l’elettore con tattiche di propaganda clandestine e messaggi subliminali, quasi sussurrati nell’ombra, mentre altri, con una sfrontatezza disarmante, sembrano contare sull’alzheimer collettivo dell’elettorato, illudendosi che la gente abbia dimenticato le loro promesse non mantenute e le loro giravolte ideologiche. In questo ambiente, la coerenza politica sembra essere la grande assente, una virtù smarrita nel labirinto delle ambizioni individuali.
La campagna elettorale è segnata da un’ondata di «conversioni» improvvise e inaspettate. Nelle liste si trovano numerosi candidati che, fino a ieri, apparivano saldi nelle loro convinzioni e nelle loro ideologie, pronti a difendere i loro principi con ardore e determinazione. Adesso, invece, rinnegano con disinvoltura le loro stesse origini, compiendo surreali retromarce che lasciano l’elettorato disorientato e confuso. Questa metamorfosi repentina sembra quasi una specie di epidemia, un virus politico che contagia i candidati di ogni schieramento. E il bagno di sangue elettorale che ne conseguirà non risparmierà che pochi illusi.
Dopo lo spoglio delle schede, gustandosi il sapore dolce dell’affermazione, Gianni Raselli e le forze del centrosinistra esultano e festeggiano con entusiasmo, mentre dalle parti del centrodestra l’atmosfera è decisamente più cupa e malinconica. Il successo di Raselli, in fondo, era nell’aria e in molti se lo aspettavano, ma in pochi, anche tra i suoi sostenitori più fedeli, avevano osato sperare in una vittoria netta e senza ricorso al ballottaggio, un risultato che sancisce in modo inequivocabile la volontà popolare e che proietta Raselli verso un nuovo onere con rinnovato vigore.
Le cariche di consigliere, assessore e vicesindaco sembrano averlo preparato al salto decisivo, culminato con la conquista della poltrona più alta del comune. Il risultato elettorale parla chiaro: 6.790 voti, equivalenti al 54,72% delle preferenze. Una percentuale che assomiglia più a un plebiscito che a una semplice vittoria elettorale. Il distacco dal suo principale contendente, Luca Rossi, è stato considerevole: quest’ultimo, pur raccogliendo un rispettabile numero di consensi pari a 4.804 voti (il 38,72%), non è mai riuscito a impensierire seriamente Raselli.
Al di là dei meriti individuali è emersa una dinamica profonda, radicata nella storia partitocratica locale. Il riferimento all’elettorato democristiano, «ingrigito» ma risvegliato da un’eco del passato, suggerisce un substrato di consenso moderato che potrebbe aver favorito Raselli. Tuttavia, l’elemento determinante risiede nella «diffusa debolezza strutturale degli oppositori». Questa vulnerabilità, forse frutto di divisioni interne, strategie poco efficaci o una difficoltà intrinseca nel connettersi con le esigenze e le aspettative della cittadinanza, ha contribuito in modo significativo a spianare la strada al trionfo di Raselli, trasformando una competizione potenzialmente equilibrata in una vittoria schiacciante. In altre parole, la debolezza dell’opposizione ha amplificato la forza (o percepita tale) del candidato vincente.
A livello regionale, in questa città persiste però una solida predominanza del centrodestra. La coalizione che sosteneva il governatore uscente, Ghigo, si è attestata su un risultato significativo, conquistando ben 6.306 voti, equivalenti al 52,73% del totale. Questo dato si contrappone ai 5.464 voti (44,88%) ottenuti dal centrosinistra, il quale sosteneva la candidata vincente e neo-eletta presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso.
Questo scenario, per quanto paradossale e fonte di angoscia per i sostenitori più ortodossi del berlusconismo, sembra consolidare un principio ormai radicato: non esiste una correlazione diretta tra le politiche o le amministrative regionali/provinciali e le elezioni comunali. Il comportamento degli elettori presenta una singolare dicotomia. Nelle elezioni locali, l’attenzione si concentra prevalentemente sulla figura del candidato, sulla sua personalità e sul rapporto diretto che riesce a instaurare con l’elettorato. Al contrario, nelle altre competizioni elettorali, l’appartenenza partitica sembra assumere un peso preponderante. Gli elettori, in questi casi, tendono a votare il simbolo del partito, delegando di fatto le decisioni a coloro che detengono il potere all’interno delle segreterie e dei vertici politici.
Un’analisi più approfondita dei numeri rivela una verità scomoda e per certi versi inquietante: il centrodestra locale, da ormai tre lustri, si presenta come una landa desolata che mostra i suoi limiti nella classe dirigente. La sua persistente volontà di camuffarsi, di imitare le altre forze politiche, ha impedito la nascita e l’affermazione di una classe dirigente autonoma e capace di interpretare le esigenze del territorio. Si vive di rendita, basandosi su alcune figure provenienti dal passato, un’enclave di ex socialisti e d’ex democristiani, alcuni dei quali, con una punta di sarcasmo, potremmo definire «demicristiani», ovvero cristiani a metà, la cui fede politica appare tiepida e priva di una vera e propria identità.
Nei primi anni del nuovo millennio, anche la Lega, a causa di frequentazioni discutibili e scelte poco oculate, ha subito un processo di deterioramento. Le tante adunate, spesso caratterizzate da toni eccessivi e promesse irrealistiche, hanno contribuito a screditare l’immagine del partito. La Lega, convinta di poter puntare alla secessione (un sogno coltivato in privato, ma rimasto nel cassetto) e illusa di essere pronta per governare la vetusta e mitologica Repubblica del Nord, ha finito per raccogliere soprattutto risate di scherno e produrre un folklore politico a tratti pittoresco, ma sostanzialmente sterile. La sua ambizione smisurata e la sua incapacità di adattarsi alle mutate esigenze del contesto politico l’hanno relegata a un ruolo marginale, privandola della credibilità necessaria per incidere realmente sulle dinamiche locali.
La pesante liturgia interna, un rituale ingombrante e obsoleto, emana un’aria inquietante, richiamando alla mente pericolose analogie con quelle dinamiche politiche che, all’alba del Novecento, avevano insidiosamente preparato il terreno fertile per l’ascesa di dittature. Non solo: la struttura stessa del partito, rigida e verticistica, pare essere l’ultima vestigia di un obsoleto modello leninista, una sorta di satrapia moderna dove il potere assoluto risiede unicamente nelle mani del capo, con una pericolosa aggravante: gli altri passano il tempo a massacrarsi a vicenda.
Negli anni si sono succeduti diversi segretari, ognuno ha lasciato un’impronta più o meno marcata: Franco Stanchi assunse la guida nell’ottobre del 1996, seguito da Sandra Porzio nel 1999, poi Paolo Soban, Michele Formagnana e successivamente Carlo Lucato. Infine, Maurizio Oddone ha ricevuto la complessa eredità.
La vita del partito è stata segnata da litigiosità e da partenze dolorose: alcuni, figure eroiche di un passato glorioso, hanno abbandonato la scena per scelta o per disillusione; altri, invece, sono svaniti nel nulla, come vecchi soldati sconfitti, inghiottiti da un mare di amarezze e disillusioni; e, infine, non mancano coloro che sono stati brutalmente messi alla porta, vittime di epurazioni interne o di giochi di potere. Ma anche leghisti contrastati da tutta la partitocrazia locale, ostile non solo a ciò che fanno ma semplicemente a tutto ciò che sono.
Il 2006 segna un momento cruciale nella storia politica italiana. Romano Prodi, a capo di una coalizione variegata e tenuta insieme quasi esclusivamente dall’antiberlusconismo viscerale (una finzione politica, in realtà, che ha tentato, con risultati discutibili, di amalgamare elementi inconciliabili, dai cattolici moderati de La Margherita agli stalinisti irriducibili di Rifondazione Comunista), riesce a conquistare la vittoria elettorale per un margine risicatissimo, un soffio, una vittoria sul filo di lana che preannuncia, forse, una legislatura breve e travagliata. La fragilità dell’alleanza, basata più sul rifiuto di un avversario comune che su una visione condivisa del futuro, si rivelerà ben presto un fardello pesante da sopportare.
Per la rottura del governo Prodi, una coalizione troppo lunga per governare, si torna al voto il 13-14 aprile 2008. Riappaiono i gazebo in piazza Gramsci (sotto lo sguardo asciutto dei passanti): ormai potrebbero anche lasciarli perennemente, è l’unico modo che hanno i partiti locali per farsi ascoltare presso qualcuno.
Una volta gli «onorevoli» (titolo condiviso ormai solo con i mandarini cinesi e i malavitosi siciliani) erano eletti dalla gente, ora si scelgono fra di loro, in modo analogo ai Cavalieri della Tavola Rotonda o alle società segrete, ma la gente comune è soprattutto eternamente indignata per i soldi che ricevono e da quel malcostume immutabile nel tempo. Col rilucente sottinteso che a ruoli rovesciati, direbbero e farebbero le medesime cose che fa l’altro.
Il partito di plastica e il Carroccio incassano nel Paese un eloquente 49,9% alla Camera e un’ancora più netto 50,4% al Senato. Berlusconi, dopo un biennio di limbo, rieccolo al potere. Uno dei migliori exploit della provincia avviene nella nostra città dove l’alleanza di centro destra registra il 58% dei voti, ma la performance più consistente è quella leghista che rispetto alle elezioni di due anni prima raddoppia i suoi voti: 11,6% al Senato (5,35% nel 2006) e 12,03% alla Camera (5,47% nel 2006).
Il nuovo Partito Democratico (DS + Margherita) a Valenza si attesta al 28% al Senato e al 27,35% alla Camera (esito non negativo in questi tempi). Amareggiati gli esponenti della Sinistra Arcobaleno, della Lista Di Pietro, dell’Unione di Centro e la Destra, tutti «calpesti e derisi» sotto il 4%, esclusi dalla corte dei miracolati.
E’ il suggello di un trend negativo che dura da un po’ di tempo, cagionato anche da una legge elettorale, concordata dai maggiori partiti e dai suoi stessi autori definita «porcata», che esclude molte minoranze (una legge elettorale che avrebbe fatto vergognare anche quella di Acerbo); con i mattarellum, i porcellum e altri ellum si è detto anche di aver posto le basi per la crescita democratica, essendo la decrescita quasi impossibile.
In quanto ai nuovi sistemi elettorali da applicare in futuro, le preferenze dei nostri politici vanno sempre a quello che può farli vincere, facendo attenzione a non dare spazio a individui troppo capaci. Il PD e il PDL sono ormai due partiti conservatori di massa, che si diversificano fra loro principalmente per le rendite verso cui hanno un occhio, se non entrambi, di riguardo.
Il 25-10-2009, quando al Centro comunale di cultura tutti sono ammessi al voto delle primarie del PD con il proposito di rianimare gli elettori e restituirgli l’illusione di contare e di essere al passo con i tempi, votano in 810 della zona, tanti anziani, qualche immigrato: giovani praticamente quasi nessuno (qui più che primarie servirebbe un primario). Vince Bersani (457 voti), come nel Paese, segue Franceschini con 241 e Marino con 104. Per il regionale, Morgando riceve 482 voti, Damiano 187, Tricarico 115.
Poi nel novembre del 2010 Mauro Milano diventa il coordinatore del PD valenzano. Forse il primo leader locale dell’ex PCI totalmente esente dal gene comunista (un ex DC, cattolico pur senza averne le stigmate, teoricamente di sinistra).
Nel 2009, all’interno del Consiglio comunale, si aprono alcune allarmanti crepe ed emergono con prepotenza le divisioni e le divergenze scatenate dalla polemica sul programma ed assestamento di un bilancio ai confini della realtà. Il clima si fa greve e velenoso con dissensi che puzzano d’eresia, finché dalle scintille si passa all’incendio che allestisce un periodo preelettorale «infuocato» e contribuisce a servire in tavola un arrosto ben farcito. Insomma, per qualcuno, qualunque cosa faccia Raselli non ha scampo, ha sempre torto. Come la fa sbaglia.
In questo clima di indeterminatezza, che ha tramutato Palazzo Pellizzari nel set di un film angoscioso con vocazione tragicomica, nelle elezioni amministrative del marzo 2010 (regionali e comunali) le novità saranno molte con politici locali scatenati, tra giravolte, trovate bizzarre e qualche coltellata alle spalle. Ma occuparsi più della «politique politicienne» che delle buche stradali è un boomerang e gli amministrati ti puniranno.
Riferiamo ora qualcosa anche degli «other parties», che colpiscono poco, non aggiungono né levano niente: esistono.
Nel decennio che descriviamo tra le forze della sinistra radicale, dalle falci e dai martelli arrugginiti (quelli che preferiscono perdere piuttosto che governare), Rifondazione Comunista è la più esposta alle dissidenze che provengono da pacifisti e ambientalisti. Non va giù che per stare al governo si baratti la guerra (Afghanistan, Libano, ecc.) e qui a Valenza questi marxisti sono incessantemente oscillanti fra la collaborazione e il sovversivismo, anche se in giro la loro residenza abituale è all’opposizione, ma secondo il vecchio andazzo qui si risolve quasi sempre tutto con i posti.
Hanno sviluppato uno spirito integralista, una specie di sessantotto senile, eternamente affascinati d’ogni regime variamente collettivista; sono non troppi, ma rumorosi e instancabili, forse neanche i Testimoni di Geova sono così persuasi di essere nel giusto. A Valenza, per il caparbio lavoro di Di Carmelo, pin-up del movimento pressoché personale (l’equivalente politico dell’arte povera, poi convertito a Sinistra e Libertà, il movimento di Nichi Vendola nato all’inizio del 2009), RC sfiora i 150 iscritti.
Tra i politici valenzani di sinistra radicale spicca l’ex seguace di Bertinotti, andato con i puri e duri di Diliberto (PdCI), Massimo Barbadoro, che nel luglio del 2007 è eletto segretario regionale del Partito dei Comunisti Italiani. Egli, capace di trasformare l’estremismo in una chance, è tesoriere regionale dal 2002, ricopre anche la carica di segretario provinciale ed è membro del Comitato Centrale del partito.
Dopo il Duemila, il panorama socialista italiano vede la nascita di nuove formazioni e la confluenza di diverse correnti, con l’obiettivo di rinnovare il movimento, ma dire tutto e il suo contrario non aiuta il sol dell’avvenire che vuole essere sia moderno che vintage. Partiti come Nuovo PSI e Socialisti Democratici Italiani (SDI) cercano di dare nuova linfa al socialismo. Dopo la diaspora, a fine 2007, i socialisti valenzani tornano a unirsi. Si costituisce il Comitato di coordinamento valenzano, che ha lo scopo di riunire varie componenti socialiste e, solo intenzionalmente, quelle laiche. Qualcuno, come un ritornante dei film di successo, insiste a voler unire e rifondare non si sa ben cosa, poiché a forza di ricominciare non ne sono rimasti più.
Per la serie «a volte ritornano», abbandonando ogni freno inibitorio, si rendono disponibili venerandi personaggi del socialismo locale che, a parte qualche eccentrico poco incline ad ascoltare, sembrano quasi abbiano l’intenzione di rifarsi una vita politica, che resta al momento solo una speranza: Cantamessa, Gilardi, Lottici, Mortari, Siligardi, Zanotto e altri. Conduce il gruppo il responsabile regionale di Costituente Socialista, Vannini. Si spera che i germogli fioriscano, ma ormai si è persa la propria identità. Nelle elezioni del 2008, l’ondata di gelo porterà via quasi tutto.
Dal 2002 sono invece presenti i nipotini della DC che rispondono al nome di UDC – dalla fusione fra Centro Cristiano Democratico, Cristiani Democratici Uniti e Democrazia Europea – e che paventano di far rinascere un centro modello dello scudo crociato; non hanno militanti e attivisti ma raccolgono un certo numero di suffragi nelle comunali. Conduce il movimento Giuseppe Gatti, esperto politico locale (blandito e corteggiato, almeno lui); egli è stato marchiato con lo scudo crociato sin dall’infanzia e del suo vecchio partito equivoco (La Margherita) non approva la deviazione sinistroide (un gesto di ardita carità cristiana).
Nella Margherita il dibattito sulla fusione con i DS del 2007 è ristretto a poche persone. Quasi un’avventura dello spirito che vanta ancora pochi proseliti. Non ci sono i rischi di frantumazione, per accrescere e appagare certe aspirazioni. Raselli e il suo «paladino» Milano (segretario del partito) e pochi altri, già ben collocati nell’amministrazione locale, discutono e decidono una cosa che è già decisa da altre parti. Anche la truppa si è assottigliata, il partito, che viaggia in pauroso ritardo, fossilizzato in pensieri e litanie da sempre uguali, vanta solo una cinquantina d’iscritti, il che ne conferma la disintegrazione.
La destra a Valenza è sempre esistita, pur se rimasta nell’ombra, ma per tanti è impresentabile a causa del passato. Anche se, con una stucchevole pigrizia espressiva, si è sempre detto molto dei crimini perpetrati dagli sconfitti e quasi niente di quelli perpetrati dai «liberatori».
La sinistra ha sempre appiccicato lo spregiativo termine «fascista» a queste posizioni politiche sgradite, allo scopo di delegittimarle.
Negli anni ’90, per tener viva la cultura di destra, toccando punte di fantasiose conclusioni e ricorrendo al linguaggio di sempre, in un bar di via Castagnone era stato costituito il Circolo Eurodestra. Poi in questo periodo trattato, il raggruppamento è rimasto un feudo di Angelo Spinelli, periodicamente candidato a rappresentare la destra nelle sfide elettorali, inamovibile guida di questa tribù indignata, schierata all’opposizione di chiunque, con pochi segni di destra sociale popolare (effetto autocrazia di ducesca memoria, ma non solo). Nessuno vuol mettere la faccia sulle sconfitte elettorali, né ci sono ancora le energie e le passioni ideali e civili per ingaggiare certe lotte politiche da ultraconservatori, ma, soprattutto, neanche s’immagina il botto che avverrà una decina di anni dopo.
Però, con le spaccature presenti tra i partiti della maggioranza e anche tra quelli dell’opposizione, nel primo scorcio del Duemila, l’arte del governo era già finita da un pezzo, non esisteva più. Con le dovute eccezioni, s’intende.