L’oreficeria a Valenza tra le due guerre
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
20 Luglio 2025
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08:24 Logo Newsguard
Il saggio

L’oreficeria a Valenza tra le due guerre

L'approfondimento del professor Maggiora

VALENZA – Nel primo Novecento, per quanto concerne la consistenza dell’industria di oreficeria, argenteria e gioielleria valenzana dobbiamo basarci sul censimento industriale del 1911 che rilevava per tutto il Regno, 1741 fabbriche di cui 162 in Piemonte. Valenza e Alessandria ne rappresentavano circa un terzo. Nel Paese gli operai del settore, nel 1911, erano 7993 di cui 2132 in Piemonte e la concentrazione massima era a Valenza. Più interessante è conoscere il numero della nutrita schiera di piccoli artigiani e lavoranti a domicilio in questi anni a Valenza che si stimano in circa 900 unità di cui 600 maschi e 300 femmine.

Si hanno notizie certe che a fine Ottocento erano presenti in Valenza le seguenti ditte orafe: Melchiorre, Della Valle, Vecchio, Bonafede & Visconti, Marchese & Gaudino, Cunioli Francesco, F.lli Scalcabarozzi, Cavalli, Peroso, Nicola Raselli, Balzana e Bonzano, Leopoldo Bissone, Angelo Prato, Mattaccheo e altre minori.

La statistica industriale di Alessandria, eseguita dalla Lega industriale nel 1925, dava come esistenti 57 fabbriche con soltanto 476 operai. Se teniamo conto che di queste 57 fabbriche ben 47 sono sorte dopo il 1911 e di queste 33 dopo il 1919 è chiaro il rivolgimento che la guerra aveva portato nell’assetto della produzione orafa valenzana.

Per completare la rilevazione statistica e poi trarne delle osservazioni occorre rilevare che di fronte a 9 fabbriche con piú di 25 operai del 1911, ve ne era solo una nel 1925 con 26 operai che produceva bigiotteria e catename e che di fronte a 9 fabbriche con maestranza da 10 a 25 operai nel 1911, nel 1925 ce ne erano 14 e di fronte a 26 fabbriche con meno di 10 operai nel 1911, nel 1925 ce ne erano 42. Si lavorava ancora argento foderato di oro e i garzoncini erano impiegati in lavori di sovrastruttura come la pulizia dei locali e delle macchine.

Poi, nel periodo interbellico, lo sviluppo del lavoro orafo a Valenza si configura come un fenomeno complesso, alimentato da una molteplicità di fattori, la cui precisa gerarchia di importanza ci risulta difficile da definire con certezza. Tuttavia, tra le diverse cause che contribuirono a questo sviluppo, spicca per rilevanza, seppur con carattere contingente, lo squilibrio venutosi a creare tra la domanda e l’offerta di oggetti preziosi nel tumultuoso periodo immediatamente successivo alla Prima Guerra Mondiale.

Con la fine del conflitto, si assistette a una vera e propria esplosione del numero di matrimoni, un evento ampiamente prevedibile considerando il drastico calo delle celebrazioni nuziali durante gli anni di guerra. Questo incremento esponenziale delle unioni matrimoniali generò, di conseguenza, un’impennata nella domanda di beni preziosi, tradizionalmente offerti come doni nuziali: anelli scintillanti, orecchini finemente lavorati, braccialetti eleganti, catene raffinate e una miriade di altri oggetti destinati a celebrare l’unione. Ma l’aumento della domanda non fu esclusivamente trainato dalla ripresa dei matrimoni. Un ruolo significativo fu giocato dall’inflazione galoppante che caratterizzò l’economia deprimente e fallimentare post-bellica. E poiché restava una società di mercato era sempre il denaro che misurava il valore delle persone (pare un assioma del denigrato Trump).

Durante il conflitto, i prezzi avevano subito un’impennata vertiginosa, quadruplicando o quintuplicando il loro valore. Come spesso accade in situazioni di inflazione elevata, si innescò un processo di ridistribuzione dei redditi, con alcuni ceti che ne beneficiarono e altri che ne furono gravemente danneggiati. Parallelamente, l’inflazione incentivò una forte accelerazione della propensione all’acquisto di oggetti preziosi, percepiti come beni rifugio sicuri in grado di proteggere il valore del patrimonio personale dalla progressiva svalutazione della moneta. In un clima di incertezza economica, l’oro e le pietre preziose rappresentavano una garanzia di stabilità e un investimento a lungo termine, spingendo un numero crescente di persone a investire in questi beni, alimentando ulteriormente la domanda e contribuendo, in ultima analisi, allo sviluppo, soprattutto, del lavoro orafo a Valenza.

Per secoli, le dinamiche economiche e sociali hanno plasmato il rapporto tra domanda e offerta di beni, inclusi i manufatti preziosi. In un’epoca di incertezza e ricostruzione, come quella immediatamente successiva a periodi di conflitto, si poteva facilmente comprendere una certa indulgenza verso la perfezione estetica dei prodotti.

La bellezza, pur desiderabile, non era più la priorità assoluta, e le minori esigenze in tal senso riflettevano una pragmatica focalizzazione sull’utilità e la disponibilità dei beni. Questa minore enfasi sull’aspetto estetico, inoltre, si allineava perfettamente con la pratica, diffusa tra la popolazione, di acquistare tali manufatti non tanto per la loro funzione d’uso, quanto per il loro valore intrinseco e per la loro capacità di fungere da riserva di valore, una sorta di tesoreggiamento cautelativo in tempi incerti. Ebbene, di fronte a questa crescente domanda, un’esplosione quantitativa più che qualitativa di desiderio di possesso, si ergeva una capacità produttiva drammaticamente insufficiente.

Il periodo bellico, con le sue devastazioni e le sue priorità alterate, aveva inferto un colpo mortale al sistema produttivo locale preesistente. La lavorazione dell’oro, l’importazione dei diamanti e pietre preziose aveva subito una stasi pressoché completa. La quasi totalità delle unità di produzione, dai piccoli laboratori artigiani alle manifatture più strutturate, aveva cessato la propria attività. Le ragioni di questa paralisi erano molteplici: la scarsità, quando non la totale assenza, di materie prime essenziali, dirottate verso lo sforzo bellico, la dispersione della mano d’opera maschile specializzata, arruolata nell’esercito, la mancanza di possibilità di commercializzazione dei prodotti. Di conseguenza, non appena la domanda riprese vigore, spinta da una rinnovata, seppur transitoria, disponibilità di denaro e dalla necessità di ricostruire le proprie vite, un’ondata di lavoratori si riversò nella produzione di gioielli.

La fine delle ostilità, il ritorno dal fronte dei combattenti, l’affiorare di ricchezze costituite nel periodo bellico portarono una certa effervescenza sul mercato orafo. Tuttavia, questa ripresa non avvenne nei tradizionali laboratori artigiani, spogliati delle loro risorse e spesso distrutti, né nelle fabbriche vere e proprie, ancora in stato di abbandono e prive di approvvigionamenti. La produzione si spostò in un ambiente più intimo e familiare a proprio capriccio e a proprio vantaggio: le case private di abitazione (anche quelle di ringhiera con il cesso sul balcone), che però nella programmazione collettiva non contavano assolutamente niente, dovevano limitarsi a obbedire al fornitore.

Dato il tipo di produzione, spesso limitato a riparazioni, fusioni di oggetti di recupero e creazioni semplici, una modesta attrezzatura era del resto sufficiente. Pochi erano gli utensili necessari per trasformare rottami e materiali di fortuna in oggetti di valore, seppur spesso di qualità inferiore rispetto a quelli prodotti prima della guerra. Così, in un lasso di tempo sorprendentemente breve, nel giro di qualche anno, l’offerta, pur frammentata e disorganizzata, riuscì ad adeguarsi, seppur in modo imperfetto, alla domanda crescente, colmando un vuoto che altrimenti avrebbe potuto avere conseguenze economiche e sociali ancora più gravi. La ripresa economica, benché fragile e disomogenea, passò anche attraverso questa inaspettata proliferazione di micro-produzioni domestiche.

Nonostante le trasformazioni in atto nell’industria orafa di Valenza, il lavoro a domicilio persistette, ostinatamente, per un periodo significativo. Quella che inizialmente si era presentata come una soluzione temporanea, una risposta a circostanze specifiche e transitorie, si consolidò, inaspettatamente, come una caratteristica duratura del settore.

Questa evoluzione ci invita a un’analisi più approfondita delle modifiche strutturali che non solo accompagnarono, ma resero effettivamente possibile, la perpetuazione di questa forma di lavoro.

È importante sottolineare, tuttavia, che i piccoli artigiani e i lavoratori a domicilio valenzani, impegnati nella creazione di gioielli, si distinguevano nettamente dai loro omologhi impiegati in altri settori produttivi. A differenza di questi ultimi, raramente possedevano un capitale circolante proprio, ovvero le risorse finanziarie necessarie per colmare il divario temporale tra l’acquisto delle materie prime – oro, gemme, leghe – e la successiva vendita dei gioielli completati.

Questa mancanza di autonomia finanziaria li rendeva vulnerabili e dipendenti da fonti esterne per poter operare. La necessità di superare questo disallineamento finanziario richiese l’intervento di soggetti terzi: non solo gli industriali, ancora in fase di completamento della riorganizzazione delle proprie aziende, ma anche e soprattutto di capitalisti intermediari. Questi ultimi svolgevano un ruolo cruciale: acquistavano le materie prime necessarie alla produzione, le fornivano ai questi lavoratori autonomi attraverso accordi di varia natura, e infine, ritiravano il prodotto finito per distribuirlo e venderlo sul mercato, nascondendo abilmente la propria misura.

Questi «patti di vario genere», che regolavano la fornitura delle materie prime e la remunerazione del lavoro, instauravano inevitabilmente un certo rapporto di dipendenza, variabile in intensità, tra i lavoratori autonomi e i committenti. Tali lavoratori si trovavano, in sostanza, vincolati alle condizioni imposte dai capitalisti speculatori (che spesso parlavano di fabbrica senza averne mai bazzicata una) e dagli industriali, i quali detenevano il controllo delle risorse e del mercato. La loro autonomia era limitata, e la loro capacità di negoziare condizioni di lavoro più favorevoli era compromessa dalla loro precaria situazione finanziaria. Questa dipendenza, radicata nella mancanza di capitale circolante, contribuì a sviluppare il lavoro a domicilio in Valenza, configurando un modello produttivo complesso e caratterizzato da andamenti asimmetrici.

Per questo le dinamiche lavorative nel settore orafo durante il periodo tra le due guerre mondiali presentavano una varietà di configurazioni, spaziando da collaborazioni strettamente integrate a forme di produzione più autonome. In alcuni casi, il committente esercitava un controllo diretto sul processo creativo, fornendo materiali semilavorati agli artigiani, i quali li trasformavano seguendo scrupolosamente le istruzioni e i modelli forniti. Questa modalità, caratterizzata da una forte dipendenza dell’artigiano dal cliente, garantiva la realizzazione di manufatti in linea con specifiche esigenze estetiche e funzionali.

In situazioni meno vincolanti, si assisteva a una maggiore libertà creativa da parte degli artigiani orafi. Pur impiegando materie prime fornite da terzi, tecnici particolarmente dotati davano vita a modelli originali, che proponevano poi al committente anche in uno stato non finito, spesso limitandosi alla creazione di «fusti» grezzi per anelli, bracciali o altri gioielli.

Un ulteriore scenario vedeva gli artigiani lavorare autonomamente, trasformando materie prime di loro proprietà. In queste circostanze, il valore dell’oggetto finito non era determinato principalmente dal costo dei materiali, bensì dalla maestria artigianale profusa nella lavorazione. L’abilità dell’orefice nel plasmare il metallo e nel conferirgli una forma artistica era esaltata dall’incastonatura di brillanti e pietre preziose, che impreziosivano ulteriormente il manufatto, conferendogli un elevato valore intrinseco ed estetico. L’attrezzatura più pesante dei laboratori spesso si riduceva al laminatoio, al banco per trafile, al bilanciere, a trance e macchine per la pulitura.

In sintesi, se il fenomeno del lavoro a domicilio e dei piccoli laboratori era inizialmente emerso come risposta a una domanda di oggetti preziosi superiore all’offerta disponibile, in un secondo momento, e sempre nel periodo tra le due guerre, esso si era consolidato, ottenendo una validazione tecnica ed economica grazie alle peculiari caratteristiche di alcuni rami dell’oreficeria. In particolare, quelle attività che richiedevano un elevato grado di qualificazione artistica, come la creazione di gioielli complessi o la lavorazione di pietre preziose, trovavano in questi ambiti una forma di organizzazione ideale, capace di valorizzare la creatività e la competenza degli artigiani, contribuendo allo sviluppo e alla diversificazione del settore orafo. Questo sistema, flessibile e adattabile, permise di rispondere efficacemente alle mutevoli esigenze del mercato e di preservare un’importante tradizione artigianale.

Le paghe degli operai orafi valenzani erano le più alte d’Italia. Infatti, un apprendista tra i 14 e 20 anni guadagnava tra le 3,50-4,50 lire all’ora mentre un buon operaio specializzato da 5 a 7 lire. Le pulitrici guadagnavano da 2 a 2,50 lire all’ora. La remunerazione del lavoro a domicilio era invece molto varia, però un orafo specializzato (di solito incassatore) guadagnava al giorno 60/70 lire e cioè circa 2000 lire al mese. Per i lavoranti a domicilio l’orario congetturabile andava dalle 5/6 ore in periodi di calma alle 12/14 ore in periodi caldi. Nel 1930 mille lire corrispondevano a circa mille euro di oggi

Nonostante i limiti imposti dall’orario di fabbrica, un orario rigido e spesso avvertito come opprimente, molti operai, grazie alla loro abilità, alla loro dedizione al lavoro e, talvolta, a straordinari ben retribuiti, erano in grado di conseguire redditi più elevati rispetto alla media degli altri settori, addirittura, rispetto a quelli degli impiegati.

Esistevano all’epoca disposizioni che fissavano l’orario di 48 ore settimanali con divieto di lavoro festivo, ma l’impressione è che a Valenza questo fosse raramente rispettato. Non vi erano come in altre industrie contratti collettivi di lavoro e non vi erano vere organizzazioni sindacali presenti. Sicché l’orario in genere di 9 ore giornaliere era fissato secondo le esigenze del datore di lavoro e Io si ampliava o lo si restringeva a seconda delle necessità produttive. Difatti nei mesi pre-natalizi l’orario era anche portato a 12 ore giornaliere con orario dalle 8 alle 12 dalle 13.30 alle 19 e dalle 20.30 alle 23. Non esisteva il sabato inglese, ma c’era il sabato fascista.

L’esistenza del sistema di lavoro a domicilio così diffuso, talvolta offriva ai lavoratori più capaci e intraprendenti un’opportunità insperata: quella di evolvere dalla mera esecuzione di compiti parcellizzati alla gestione autonoma di un’attività. In alcuni casi, questa trasformazione consentiva loro, quando erano dotati di particolari capacità imprenditoriali e di una visione più ampia del mercato, di trasformarsi in artigiani, aprendo piccoli laboratori e gestendo in prima persona la produzione. In situazioni ancora più fortunate, alcuni riuscivano addirittura a evolvere in industriali, gettando le basi per vere e proprie imprese. Numerosi esempi, sparsi nel tessuto economico confermano questo passaggio, un vero e proprio salto qualitativo che andava ben oltre il semplice aumento del reddito.

Questo passaggio poneva determinate capacità imprenditoriali quali la capacità di organizzazione, la propensione al rischio, l’abilità nel gestire le risorse e, non ultima, la competenza nel comprendere e anticipare le dinamiche del mercato. Il passaggio dal lavoro a domicilio, spesso vissuto come una condizione precaria e subordinata, all’artigianato o all’industria rappresentava un’emancipazione economica e professionale significativa. Difatti, tra gli elementi differenziali del lavoro a domicilio rispetto a quello artigianale, e ancora più rispetto all’attività industriale, non erano tanto costituiti dai procedimenti tecnici di fabbricazione, che potevano essere simili o addirittura identici, quanto dall’organizzazione dell’intero processo produttivo.

Mentre nel lavoro a domicilio l’orefice era principalmente un esecutore, nell’artigianato e nell’industria si assumeva la responsabilità della gestione, della coordinazione delle diverse fasi di produzione e, aspetto cruciale, della commercializzazione. Quindi, anche dalle modalità di vendita dei manufatti finiti dipendeva il successo dell’impresa.

L’artigiano e l’industriale dovevano essere in grado di trovare mercati, negoziare prezzi, gestire la logistica e, in definitiva, costruire un marchio e una reputazione. Quanto s’è appena detto, tuttavia, non vuole affatto significare che nel periodo tra le due guerre l’attività orafa a Valenza sia stata principalmente caratterizzata dallo sviluppo esclusivo del lavoro a domicilio e dalla sua trasformazione generalizzata in attività artigianale o industriale. Se ci si limita a porre in rilievo questo fenomeno, pur importante, si corre il rischio di darne una immagine del tutto distorta e parziale della realtà economica locale. Difatti, nello stesso periodo storico, il peso produttivo dell’artigianato, inteso come attività strutturata e indipendente, ma anche e soprattutto dell’industria vera e propria, con le sue fabbriche, i suoi macchinari e i suoi dipendenti, presentò un deciso aumento, spesso in parallelo alla persistenza e alla diffusione del lavoro a domicilio. Pertanto, un’analisi completa e accurata del settore orafo valenzano nel periodo tra le due guerre deve necessariamente considerare la coesistenza e l’interazione di queste diverse forme di organizzazione del lavoro.

Le trasformazioni strutturali che hanno interessato l’attività orafa valenzana rappresentano un nodo cruciale per comprendere la sua evoluzione. Queste modifiche, intrinsecamente legate al dinamismo che ha alimentato lo sviluppo produttivo della città, si configurano come un circolo virtuoso, in cui causa ed effetto si intrecciano indissolubilmente e hanno acquisito una rilevanza significativa nel periodo più vicino alla Seconda Guerra Mondiale.

In quel frangente storico, l’attività orafa, intesa nella sua accezione più ampia, conobbe una progressiva differenziazione e, soprattutto, una crescente specializzazione. Da un lato, si assistette alla produzione di manufatti d’oro semplici, privi di pietre preziose. Dall’altro, emerse la creazione di gioielli sofisticati, in cui il platino e l’oro venivano esaltati dall’incastonatura di pietre preziose e perle di varia qualità e valore. Si trattava, in sostanza, dell’affermazione di una vera e propria gioielleria, connotata da una maggiore ricercatezza e preziosità. Parallelamente, si registrò una progressiva focalizzazione sull’utilizzo di metalli nobili come l’oro e il platino, a discapito dell’argento. Questo spostamento contribuì a sua volta allo sviluppo dell’attività argentiera nella vicina Alessandria, che si specializzò nella lavorazione di questo metallo.

Di contro, la produzione di bigiotteria, meno redditizia e meno prestigiosa, perse progressivamente importanza nel panorama valenzano. Queste modifiche strutturali, dunque, offrono una chiave di lettura per comprendere anche l’espansione del lavoro a domicilio. Quest’ultimo, infatti, presentava caratteristiche operative uniche e vantaggiose per le nuove dinamiche produttive, consentendo una maggiore flessibilità e una migliore gestione dei costi, soprattutto in un contesto caratterizzato da una crescente specializzazione e dalla produzione di oggetti sempre più complessi. Il lavoro a domicilio, quindi, si inserì perfettamente nel nuovo modello produttivo, contribuendo a consolidare il ruolo di Valenza come polo di eccellenza nell’arte orafa e gioielliera.

Ma questi fattori economici e sociali, in modo apparentemente paradossale, spiegano anche il progressivo potenziamento dell’attività artigianale e, ancor più significativamente, dell’industria orafa. Difatti, se è innegabile che il lavoro a domicilio offriva il vantaggio di una maggiore aderenza alle mutevoli tendenze della moda, soprattutto quando la produzione era focalizzata su oggetti che esigevano un elevato grado di perizia artistica e cura dei dettagli, e se garantiva una maggiore elasticità per adattarsi alle fluttuazioni stagionali della domanda, presentava intrinseci limiti strutturali.

Anche il lavoro artigianale, per sua natura frammentato e spesso privo di capitali consistenti, raramente si dimostrava in grado di assumersi i rischi inerenti all’attività imprenditoriale su vasta scala e nel settore dell’oreficeria, caratterizzato dalla volatilità dei prezzi delle materie prime e dalla complessità dei processi produttivi, i rischi, di varia natura, erano particolarmente elevati.

Basti ricordare, ad esempio, i pericoli di natura finanziaria, legati all’approvvigionamento di oro, argento e pietre preziose, e alla necessità di investire in attrezzature e macchinari. E a questo proposito, si può pure sottolineare come, accanto all’attività di produzione vera e propria, specie nel campo dell’oreficeria di serie, quella destinata alla vendita su larga scala, si fosse sviluppata un’attività di intermediazione commerciale, altrettanto cruciale per il funzionamento del mercato, benché intrinsecamente più esposta a fluttuazioni e incertezze. Gli intermediari, infatti, si facevano carico di trovare i mercati, distribuire i prodotti e gestire i rapporti con i clienti, assumendosi una parte significativa del rischio imprenditoriale.

Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, la produzione di manufatti preziosi non poteva, né doveva, rimanere estranea al progresso tecnico. Pur con una certa lentezza e gradualità, anche in questo periodo storico si assistette all’introduzione di nuove macchine utensili, capaci di automatizzare alcune fasi del processo produttivo e di aumentare la precisione e l’efficienza del lavoro. Queste macchine, queste attrezzature specializzate, richiedevano però un investimento iniziale significativo e, di conseguenza, potevano essere installate e utilizzate solo all’interno di imprese di una certa dimensione, dotate di solidità finanziaria e capacità di pianificazione a lungo termine.

Questa frammentazione e specializzazione del lavoro, resa possibile dall’introduzione delle nuove tecnologie, segnò un punto di svolta per l’industria orafa, aprendo la strada a una produzione più efficiente, standardizzata e competitiva. L’evoluzione dei processi produttivi nel settore orafo e manifatturiero del gioiello evidenziava una crescente complessità che rendeva imprescindibili una serie di passaggi successivi, irrealizzabili nell’ambito domestico.

La parcellizzazione del lavoro, sebbene diffusa in un primo momento con la figura del lavoratore a domicilio, si scontrava inevitabilmente con le limitazioni imposte dalla mancanza di infrastrutture adeguate. Questi artigiani, spesso custodi di un sapere antico e raffinato, si trovavano a operare con strumenti di lavoro modesti, inadatti a garantire la precisione e l’efficienza richieste dalle nuove tendenze del mercato. Ci si riferisce, in particolare, alle cruciali operazioni di rifinitura, quelle che conferivano al manufatto il suo aspetto finale e distintivo; alle saldature, sempre più complesse e delicate per l’assemblaggio di componenti diversi; all’incassatura di pietre preziose e di perle, un’arte che richiedeva non solo abilità manuale, ma anche l’utilizzo di specifici strumenti di precisione per garantire la tenuta e la valorizzazione della gemma.

L’avvento di macchinari e attrezzature tecnologicamente avanzate, sempre più performanti e sofisticate, non solo facilitava il lavoro ma contribuiva, in maniera significativa, all’affermazione di realtà industriali specializzate, si assisteva a un’accelerazione nella produzione di oggetti come spille, anelli, catene, braccialetti, medaglie religiose, e altri articoli di gioielleria, dove la precisione e la ripetibilità della macchina potevano vantaggiosamente sostituire, in parte, il lavoro manuale, consentendo una riduzione dei costi e un aumento della quantità prodotta.

Tuttavia, la capacità di produrre in grandi quantità non era sufficiente a garantire il successo. L’imperativo categorico era la vendita. Prima del 1915, l’orizzonte commerciale delle aziende orafe valenzane era prevalentemente circoscritto ai mercati locali, spesso caratterizzati da una clientela affezionata e da una domanda relativamente stabile. Il periodo tra le due guerre, invece, segnò un’epoca di profondo cambiamento, con l’allargamento progressivo dei mercati, sia a livello nazionale che internazionale. Questa espansione imponeva una riorganizzazione radicale delle strategie di vendita, richiedendo una maggiore flessibilità e capacità di adattamento alle diverse esigenze dei consumatori.

Sebbene le vendite sul mercato nazionale si dimostrassero, in linea generale, più agevoli grazie alla conoscenza del territorio e delle abitudini dei consumatori, l’accesso ai mercati esteri presentava sfide significative. Elevate barriere protezionistiche, imposte dal governo per tutelare le proprie industrie nazionali, rappresentavano un ostacolo non trascurabile, limitando l’ingresso di prodotti stranieri e rendendo la competizione più ardua.

La tassa sugli affari per l’acquisto dell’oro era del 2%. Il suo valore nel 1926 era di lire 16.000 al Kg mentre nell’anteguerra valeva lire 3.410 al Kg. Il platino che valeva prima della Grande Guerra 7.250 lire al Kg. valeva nel 1926  lire 90.000 dopo aver raggiunto le 120.000 al Kg. L’argento valeva 100/110 lire e passò (sempre nel 1926) a 500 lire. Per i diamanti può essere considerato un rapporto del 100% tra i prezzi ante e postbellici.

Le aziende orafe vessate da norme inutili, anzi dannose, si trovarono, quindi, a dover investire in nuove strategie di marketing, nella ricerca di partner commerciali affidabili e nell’adattamento dei propri prodotti alle specificità dei diversi mercati internazionali, per superare le difficoltà e affermarsi in un contesto sempre più globalizzato e competitivo. Poi nel 1927 sopraggiunse «la mòla», la grande crisi di recessione, la cosiddetta «quota novanta», aggravatasi con la crisi mondiale del 1929 che, oltre a determinare una diffusa insicurezza sociale (sia individuale che collettiva), incise pesantemente sulle aziende orafe sino al 1936 in corrispondenza con la Guerra d’Africa.

Tra le due guerre, l’organizzazione commerciale nel settore orafo mantenne una struttura incentrata sulla figura del viaggiatore. Questi professionisti, dotati di valigie piene di campioni luccicanti, percorrevano instancabilmente le vie commerciali, visitando i negozi e i laboratori di vendita. Spesso, si avvalevano della collaborazione di rappresentanti locali, figure chiave per navigare le peculiarità di ogni mercato e instaurare relazioni durature con i commercianti: una sorta di esemplare occultato, una forma irreale di mercante  con quell’aria da agente segreto.

Questo sistema, rodato e consolidato, permetteva alle aziende orafe valenzane di raggiungere un’ampia clientela, diffusa su tutto il territorio nazionale e, in alcuni casi, anche internazionale. Tuttavia, nel corso di questo periodo, emerse una tendenza distintiva che differenziò i viaggiatori di gioielli dai loro omologhi operanti in altri settori industriali. Mentre i venditori di altri prodotti rimanevano primariamente responsabili della presentazione e della vendita diretta, i viaggiatori nel mondo della gioielleria iniziarono a evolversi verso un ruolo più complesso e articolato a carattere trasformativo: quello di veri e propri intermediari.

Questa trasformazione implicava un cambiamento significativo nella loro responsabilità e autonomia. Operando in proprio, sebbene mantenendo legami con le aziende produttrici, i viaggiatori/intermediari si assumevano una quota, seppur parziale, dei rischi legati alla vendita. Non erano più semplici esecutori di ordini, ma agenti attivi nel processo commerciale, con la facoltà di negoziare prezzi, condizioni di pagamento e, in alcuni casi, persino di influenzare le scelte dei clienti.

Nel periodo da noi considerato operavano circa un centinaio di viaggiatori e rappresentati dipendenti da ditte orafe valenzane oltre i proprietari ed i rappresentanti di se stessi.

In parallelo, un altro modello di intermediazione si faceva strada: quello in cui gli stessi imprenditori orafi, o membri del loro stretto nucleo familiare, si facevano carico della funzione di collegamento tra produzione e vendita. Questa pratica era particolarmente diffusa a Valenza, un centro di eccellenza orafa caratterizzato da un tessuto produttivo dominato da imprese familiari, una formula vecchia come il cucco. È cruciale sottolineare, infatti, che una delle peculiarità dell’attività orafa valenzana in quel periodo era proprio l’assoluta preminenza di queste strutture familiari da «mulino bianco». Queste unità di produzione, spesso di dimensioni contenute, si distinguevano per un modello in cui le capacità imprenditoriali e i capitali necessari al sostentamento dell’attività erano concentrati nelle mani di una singola persona, l’imprenditore orafo, oppure di un gruppo di individui legati da vincoli di sangue o matrimonio.

In questo scenario, la gestione diretta della vendita da parte dell’imprenditore o di un suo familiare era una scelta naturale, dettata dalla volontà di mantenere il controllo sull’intero processo, dalla creazione del gioiello alla sua commercializzazione, e di preservare i valori e la reputazione dell’azienda.

Per cogliere il vero paradigma occorre soffermarsi sul dinamico mondo del commercio di oreficeria del passato, dove esisteva una netta distinzione tra la vendita di manufatti seriali e quella di pezzi unici, in particolare gioielli. La prima categoria, composta principalmente da oggetti realizzati in oro e prodotti in serie, richiedeva un approccio commerciale relativamente semplice: il venditore presentava un campionario rappresentativo, prendeva gli ordini e li trasmetteva alla produzione. La vendita di gioielli, invece, si configurava come un’attività decisamente più complessa e personalizzata. Il campionario, in questo caso, doveva necessariamente essere costituito dagli oggetti stessi che il viaggiatore-venditore avrebbe poi lasciato immediatamente al cliente una volta concordati il prezzo, le modalità di pagamento e tutti i dettagli della transazione.

Questa prassi conferiva al viaggiatore una responsabilità significativamente maggiore. Egli non era semplicemente un venditore, ma spesso si trasformava in una figura di intermediazione, quasi un imprenditore autonomo. Poteva, ad esempio, assumersi in tutto o in parte il rischio del finanziamento delle vendite, concedendo dilazioni di pagamento o supportando finanziariamente i clienti nell’acquisto di gioielli particolarmente preziosi. Questa flessibilità e capacità di adattamento erano cruciali per concludere affari di successo in un mercato esigente e competitivo.

Nonostante le sfide poste da faticose procedure doganali e dai protezionismi diffusi in diverse nazioni, il periodo tra le due guerre mondiali vide una significativa crescita dell’esportazione di gioielli verso mercati vicini e lontani. Questo sviluppo fu spesso agevolato dal ruolo cruciale di intermediari valenzani, noti per la loro competenza e conoscenza del settore. Questi intermediari fungevano da ponte tra i produttori e i mercati internazionali, facilitando le transazioni e superando le barriere burocratiche.

Per aggirare le difficoltà legate ai dazi assai gravosi applicati alle pietre preziose, si ricorreva a un’astuta strategia: i gioielli venivano spediti privi delle gemme, evitando così le tasse elevate. Il completamento dei manufatti, con l’incastonatura delle pietre preziose, veniva poi effettuato direttamente nel paese importatore, ottimizzando i costi e rendendo l’esportazione più competitiva. Questo ingegnoso approccio dimostra la capacità di adattamento e l’intraprendenza dei commercianti italiani dell’epoca, pronti a superare gli ostacoli pur di portare la bellezza e l’eccellenza dell’oreficeria italiana in tutto il mondo.

I principali mercati erano il Centro e il Sud America dove il lavoro regolare, da puntellare con qualche preghiera, a quanto pare era integrato anche dal contrabbando. Gli altri paesi reputati interessanti per l’esportazione erano: l’isola di Malta, evidentemente centro di smistamento verso altri lidi con un dazio all’entrata del 20%, l’Egitto, la Grecia e la Turchia. I paesi americani più interessanti erano il Brasile, l’Argentina, la Columbia e il Venezuela. Gli Stati Uniti al tempo attuavano una politica di protezionismo feroce e quindi non vi era possibilità di esportazione. I paesi asiatici erano considerati troppo distanti, di gusto dissimile dal nostro e privi di punti di riferimento e di appoggio: più avanti il procedere sarà automatico e inarrestabile.

Nel periodo intercorrente tra le due guerre mondiali, il finanziamento dell’attività orafa si presentò come una sfida particolarmente complessa. Tale difficoltà non era unicamente ascrivibile ai rischi intrinseci e peculiari che già gravavano su questo specifico settore, ma era anche esacerbata dal marcato processo deflazionistico che pervase l’economia italiana in quegli anni. Questo fenomeno deflazionistico, di ampia portata e con conseguenze significative, ebbe origine nel 1926 con la decisione di rivalutare la lira rispetto a valute forti come la sterlina inglese e il dollaro statunitense. Questa mossa, pensata per rafforzare l’immagine della lira e stabilizzare l’economia, in realtà innescò una spirale deflazionistica che poi venne ulteriormente amplificata dagli effetti devastanti della Grande Crisi mondiale del 1929, interconnessa e senza precedenti. Non è scopo di questa analisi approfondire in dettaglio le innumerevoli difficoltà che tutte le unità di produzione, di ogni settore merceologico, dovettero affrontare durante questo periodo turbolento. Basti dire che tali difficoltà, a causa della persistente deflazione e della crisi economica globale, si protrassero ininterrottamente dal 1926 fino al 1935, mettendo a dura prova la resilienza del tessuto produttivo italiano.

Nel 1935, nel tentativo di arginare la crescente carenza di valuta straniera, il governo italiano prese una decisione drastica: monopolizzare il commercio dell’oro attraverso la creazione di un ente statale appositamente designato. Questa misura, sebbene mirata a risolvere un problema di liquidità nazionale, ebbe un impatto negativo sull’attività orafa di Valenza e di altri centri di produzione orafa italiani. La monopolizzazione, infatti, limitò l’accesso alla materia prima, creando incertezza e ostacolando lo sviluppo del settore.

Infine, e qui stava il problema principale, rimanendo sempre nell’ambito storico del periodo tra le due guerre, è importante sottolineare come il capitale accumulato all’interno delle singole unità di produzione orafa, frutto di anni di lavoro e sacrifici, fosse spesso insufficiente a coprire interamente le necessità finanziarie dell’impresa. Tale capitale, nella migliore delle ipotesi, consentiva il finanziamento del capitale fisso, ovvero l’acquisto di macchinari e attrezzature necessarie per la produzione, e solo una parte, la cui entità variava a seconda delle dimensioni e della solidità dell’azienda, del capitale circolante, ovvero le risorse necessarie per l’acquisto di materie prime, il pagamento dei salari e la gestione delle spese operative quotidiane.

Del resto, ecco il punto, questa limitazione nell’accesso al credito e nella disponibilità di capitale circolante rappresentò un ulteriore ostacolo alla crescita e alla modernizzazione del settore orafo in un periodo già segnato da incertezza economica e difficoltà finanziarie.

In quegl’anni operavano a Valenza cinque banche: la Banca Commerciale Italiana, la Banca Agricola italiana, la Cassa di Risparmio di Alessandria, la Banca Ceriana e la Popolare di Novara. Come lavoro pare che la Commerciale svolgesse circa metà delle operazioni bancarie, un po’ meno la Ceriana e la Novara che avevano prevalentemente la piccola clientela e il restante veniva ripartito tra le altre banche valenzane e qualcuna di Alessandria. La politica attuata dalle banche nei confronti delle aziende orafe era alquanto cauta proprio in conseguenza ai numerosi fallimenti verificatisi nell’anteguerra a causa della politica del fido facile. Una ragione banale, come tutte quelle inconfondibili, e sui numeri c’era soltanto l’imbarazzo della scelta.

L’attività orafa, nel periodo in esame, si sosteneva prevalentemente attraverso i proventi diretti rilasciati dai clienti come corrispettivo per i manufatti venduti, una dinamica commerciale semplice ma fondamentale per la sua sopravvivenza. Parallelamente, si assisteva a un’evoluzione delle pratiche finanziarie, con l’acquisizione di una crescente importanza delle aperture di credito in conto corrente, uno strumento che consentiva una maggiore flessibilità nella gestione dei flussi di cassa. Un ruolo ancor più significativo, tuttavia, assunsero le aperture di credito d’accettazione, in particolare nei confronti dei fornitori di materie prime. Questi fornitori, essenziali per l’approvvigionamento del settore, operavano quasi interamente al di fuori dei confini nazionali, spesso in mercati internazionali, subordinandosi alle loro esigenze.

La natura intrinsecamente rischiosa di tali operazioni finanziarie, derivante dalla dipendenza da fornitori esteri e dalle fluttuazioni dei mercati globali, rappresentava un fattore di preoccupazione per il sistema e il risiko bancario. Questa cautela, se non vera e propria reticenza, nel concedere fidi all’attività orafa era ampiamente giustificata dalla percezione di un rischio elevato. Di conseguenza, una porzione considerevole delle operazioni finanziarie legate all’oro sfuggiva ai canali ufficiali e, di conseguenza, a ogni forma di accertamento o controllo. Si trattava, in sostanza, di una fitta rete di rapporti finanziari diretti tra artigiani, industriali e privati investitori, spesso anch’essi coinvolti, direttamente o indirettamente, nel mondo dell’oreficeria. Questa circostanza spiega l’importanza dei finanziamenti all’attività orafa forniti da capitalisti privati, i quali, probabilmente, comprendevano meglio i rischi e le opportunità del settore rispetto agli istituti di credito tradizionali.

L’inizio delle ostilità belliche nel 1940, paradossalmente, coincise con una fase di espansione dell’attività orafa, una crescita che si verificava nonostante le difficoltà derivanti dal monopolio statale del commercio dell’oro, una misura che avrebbe dovuto, in teoria, frenare l’attività. Questa espansione era alimentata da una domanda di manufatti e gioielli che rispondeva, in parte, a bisogni puramente estetici e d’ornamento, ma, in misura significativa, era altresì stimolata da profonde preoccupazioni di natura inflazionistica. In una situazione di incertezza economica e svalutazione monetaria, l’oro rappresentava un bene rifugio, un investimento sicuro che spingeva le persone ad accumulare gioielli come forma di protezione del proprio patrimonio.

È importante ricordare che, diversamente dalla Prima Guerra Mondiale, all’inizio la guerra non causò un calo dei matrimoni. Questo aspetto demografico è legato alla richiesta di beni comprati di solito per i matrimoni. Anche se il costo dell’oro saliva a causa di problemi con le valute che rendevano difficile importarlo, e per l’aumento dei prezzi che mostrava quanto poco valesse la lira, la richiesta rimase alta, almeno all’inizio del conflitto.

Col tempo, l’inflazione e il mercato nero, che favorivano chi comprava oro e gioielli (vero business per alcuni) come investimento sicuro, influenzarono molto la domanda. I gioiellieri potevano soddisfare questa domanda comprando oro e pietre preziose al mercato nero. Queste materie prime provenivano soprattutto da chi, essendo meno ricco o danneggiato dall’inflazione, vendeva i propri oggetti.

Questo non è il posto giusto per parlare di questo lato economico e sociale del problema. Però, è vero che, soprattutto dopo l’armistizio e durante l’occupazione tedesca, l’oreficeria in generale, e quella di Valenza in particolare, aiutò a spostare ricchezze. Questo succede sempre con l’inflazione, una minaccia estesa e crescente, specialmente quando è forte. Durante l’occupazione, l’industria orafa di Valenza subì pressioni dai tedeschi, sia per usare i lavoratori per la guerra, sia per proteggere oro e pietre preziose. Perciò, dovette ridurre il lavoro, che fu in parte fatto da piccoli artigiani e persone che lavoravano a casa.

Così, finita la guerra, poterono subito riprendere a lavorare. Le materie prime, ben nascoste, tornarono disponibili. I lavoratori non se ne erano andati, come nella prima guerra mondiale. Le macchine e gli strumenti, anche se vecchi, funzionavano ancora. E dopo ci sarà il grande boom.

Oggi rimane un pizzico di mite nostalgia di una città si bella e perduta, ma senza alcun intento di tornare a quel tempo.

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