Antiche famiglie di Valenza
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
27 Luglio 2025
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Il saggio

Antiche famiglie di Valenza

L'approfondimento storico del professor Maggiora

VALENZA – Approfondiamo la storia di alcune tra le più illustri famiglie nobili di Valenza, presenze costanti negli atti notarili e nelle cronache del tempo, la cui memoria è perpetuata dalle loro azioni, dalle opere di carità che hanno generosamente finanziato con lasciti cospicui, e dagli edifici imponenti che hanno commissionato e contribuito a innalzare, plasmando il volto della città.

I descritti sono quasi tutti maschi di buon gusto e cultura, cui la seconda cosa che prediligevano era il comando. La prima? Be’. Questo è un primo gruppo, custodito nell’angolo remoto dei buoni intendimenti.

Annibaldi / Arribaldi

Iniziamo con la famiglia Annibaldi, un casato il cui nome, in un affascinante gioco di evoluzione linguistica e documentale, si presenta spesso nelle fonti antiche anche come Arribaldi. Questa duplice denominazione è un indizio prezioso: testimonia che, alle origini, si trattava di un’unica stirpe, un tronco comune destinato, solo in un secondo momento, a diramarsi nettamente in due rami distinti. Tale processo di scissione, come spesso accade in simili contesti genealogici, fu graduale e prolungato. Il periodo di transizione tra la nomenclatura antica, saldamente radicata nella tradizione, e la nuova, emergente e in via di consolidamento, si estese per oltre un secolo. Durante questa fase, una stessa persona poteva essere indifferentemente designata come Annibaldi o Anibaldi, variante ancora più arcaica, oppure come Arribaldi o Aribaldi, creando una certa confusione interpretativa.

Il dibattito sulle origini primarie dei due rami rimane aperto e avvincente. Alcuni autorevoli genealogisti sostengono che gli Arribaldi abbiano preceduto gli Annibaldi, altri, invece, propendono per la tesi opposta, argomentando che il ceppo originario fosse quello degli Annibaldi. La verità, forse, si cela in una complessa interazione di fattori sociali, economici e politici, difficili da ricostruire con certezza a secoli di distanza.

Ciò che è certo, tuttavia, è che la successiva divisione degli Annibaldi nei rami dei Biscossa e dei Ghilini ebbe un impatto decisivo sulla stabilizzazione delle denominazioni. I Biscossa, legati indissolubilmente alla linea principale, adottarono e mantennero in modo definitivo la forma «Annibaldi Biscossa». I Ghilini, invece, si identificarono in maniera altrettanto salda con la variante «Arribaldi Ghilini», consolidando così la doppia identità che aveva caratterizzato la storia della famiglia. Questa scelta, presumibilmente dettata da legami di parentela, strategie matrimoniali o semplici preferenze personali, cristallizzò una distinzione che, da incerta e fluttuante, divenne un elemento distintivo e permanente. La coesistenza delle due denominazioni, Annibaldi e Arribaldi, è quindi una testimonianza tangibile della complessità e della ricchezza della storia familiare di questo importante casato.

Le origini della famiglia Annibaldi, avvolta nel mistero e oggetto di speculazioni storiche, sono state tradizionalmente associate alla grandezza e al prestigio di Roma. Tuttavia, lo storico Ferdinand Gregorovius avanza un’ipotesi audace, suggerendo un’ascendenza germanica più remota per questo casato. Indipendentemente dalle sue radici precise, la famiglia Annibaldi fiorì in diverse regioni d’Italia, lasciando un segno indelebile nella storia. La città di Valenza, in particolare, divenne un importante centro di presenza per gli Annibaldi, che vi si stabilirono in numero notevole e da cui si diffusero in aree limitrofe. Il primo degli Annibaldi di Valenza di cui si hanno notizie è Giovanni, vicario di Re Roberto in Alessandria, fondatore della chiesa di San Francesco in Valenza nel 1322. Esercitò la sua autorità praticamente su tutto, portando acqua un po’ a tutti.  Morì nel 1334 e venne sepolto in detta chiesa in un artistico sarcofago.

Nel corso del Quattrocento, un ramo della famiglia piantò le proprie radici nella città di Asti, espandendo così l’influenza e il prestigio del casato. Un documento coevo testimonia l’esistenza di un altro ramo della famiglia nella vicina Bassignana, confermando la loro espansione territoriale e la loro crescente importanza nella regione. Tuttavia, è nel tardo Cinquecento che un terzo ramo della famiglia Annibaldi, forse il più significativo in termini di impatto e prosperità futura, compì un passo cruciale trasferendosi nella città di Alessandria. Questo trasferimento segnò un punto di svolta nella storia della famiglia, culminando con il matrimonio di un membro di spicco, Vincenzo Annibaldi, con la nobildonna Marianna Ghilini. Da questa unione dinastica nacquero gli Aribaldi Ghilini, consolidando ulteriormente il potere e l’influenza della famiglia Annibaldi e intrecciandone il destino con quello di un altro illustre casato.

Tra i membri più illustri della famiglia Annibaldi, Vincenzo emerge come figura di spicco nella Valenza del Cinquecento. Dotato di un talento straordinario e di una profonda conoscenza della giurisprudenza, si distinse per la sua integrità, la sua competenza e il suo servizio alla collettività. Ricoprì cariche pubbliche di grande importanza, dimostrando una rara capacità di leadership ideologica e una profonda comprensione delle complessità del governo locale che non era certo l’Imperium vagheggiato da Dante nel De monarchia.

Nato a Valenza il 5 agosto del 1531, da Ludovico e Caterina Campagna, Vincenzo Annibaldi intraprese un percorso di studi brillante e impegnativo. Dopo aver conseguito la laurea in diritto civile presso la prestigiosa Università di Pavia, approfondì la sua preparazione accademica ottenendo la laurea in diritto canonico.

La sua competenza e il suo talento lo portarono a operare nella sede ducale di Milano e nella Bruxelles spagnola, dove ebbe l’opportunità di lavorare a stretto contatto con re Filippo II. La sua saggezza e il suo acume politico furono molto apprezzati dal monarca e da tutta la corte spagnola, che lo tenevano in grande considerazione. La vita di Vincenzo Annibaldi fu caratterizzata da frequenti viaggi e spostamenti, che lo portarono a confrontarsi con realtà diverse e a stringere importanti relazioni internazionali.

Fu spesso presente a Roma in qualità di auditore, partecipando a diverse udienze papali e guadagnandosi l’ammirazione dei cardinali e dei maggiorenti della Santa Sede. La sua profonda fede religiosa e il suo impegno per la giustizia lo resero una figura rispettata e influente all’interno della Chiesa cattolica. La sua personalità emerse per compostezza e disponibilità, astuzia e per le sue celeberrime doti di negoziatore; fu tanto sostenuto dallo sconfortante servilismo adulatorio del tempo.

Oltre al suo operato in altri ambiti, è importante ricordare che Vincenzo è noto anche per aver significativamente riformato gli statuti della città di Valenza nel lontano 1584. Questa riforma, presumibilmente, mirava ad aggiornare e rendere più efficienti le leggi e le normative che governavano la vita della popolazione valenzana, riflettendo le mutate esigenze sociali, economiche e politiche dell’epoca. La sua revisione degli statuti, quindi, testimonia un impegno attivo nella governance locale e un tentativo di migliorare l’amministrazione della giustizia e il benessere dei cittadini di Valenza. Vincenzo Annibaldi morì nel 1592, lasciando un’eredità duratura d’integrità, competenza e servizio alla comunità. La sua memoria rimane viva nella storia di Valenza e negli annali della giurisprudenza italiana.

La famiglia Annibaldi, autoctona di Valenza, nel corso dei secoli ha annoverato tra le sue fila figure di spicco in diversi campi, dalla giurisprudenza alla medicina, dalla filosofia alla politica, testimoniando una notevole vitalità intellettuale e un forte legame con il territorio di origine.

Anche Matteo Annibaldi (1533-1573), fratello di altri membri illustri della famiglia, si distinse come affermato giureconsulto. Conseguiti i titoli accademici in legge e rivestito il prestigioso ruolo di auditore di Rota, visse a Roma godendo della protezione del celebre cardinale Arcangelo de’ Bianchi, figura influente nella curia romana, dove l’ostentato formalismo dei rapporti occultava invidie e diffidenze. La sua presenza a Roma, sotto l’egida di un cardinale così potente, testimonia l’ascesa sociale e l’influenza raggiunta dalla famiglia Annibaldi, con presunta «unzione eccelsa».

A testimonianza della forte fede religiosa della famiglia, due delle sue sorelle, suadenti e silenziose, abbracciarono la vita monastica nel monastero valenzano della Santissima Annunziata, un luogo di preghiera e contemplazione che beneficiava presumibilmente del sostegno materiale e spirituale degli Annibaldi.

In un periodo di grande fermento culturale e scientifico, diversi membri della famiglia Annibaldi, tutti nativi di Valenza, cresciuti in un ambiente ricco di stimoli culturali, contribuirono significativamente all’insegnamento e alla ricerca presso l’ateneo pavese, uno dei più antichi e prestigiosi d’Italia. Roberto Annibaldi, talvolta indicato come «de Aribaldi» nelle fonti dell’epoca, fu professore di medicina nella prima metà del quindicesimo secolo, contribuendo alla formazione di generazioni di medici e all’avanzamento delle conoscenze mediche. Bernardo Annibaldi, attivo intorno al 1480, ricoprì la cattedra di filosofia morale, distinguendosi per la profondità del suo pensiero. Pur essendo considerato uno dei più raffinati intellettuali del suo tempo, il suo pensiero non allineato con le dottrine ortodosse gli valse spesso l’etichetta di dissidente, ma la sua irrequietezza veniva dalla fame di sapere e dal desiderio di giustizia. Giovanni Stefano Annibaldi, invece, si dedicò all’insegnamento del diritto civile a partire dal 1591, formando giuristi destinati a ricoprire incarichi importanti nell’amministrazione e nella giustizia. Nel corso del Cinquecento, Alessandro Annibaldi assunse la carica di sindaco di Valenza, dimostrando l’impegno della famiglia nella vita politica e amministrativa della città.

Nel 1562, la famiglia Annibaldi manifestò la propria devozione religiosa con un gesto sostanzioso: la donazione di numerosi beni, tra cui vasti terreni nel territorio di Mede, al convento di San Francesco, un luogo religioso cui era particolarmente legata per ragioni spirituali e di tradizione familiare. La generosità dimostrata verso l’ordine francescano sottolinea i valori di carità e di impegno sociale che caratterizzavano questa famiglia.

Sul fronte militare, Carlo e Teodoro Annibaldi si distinsero come capitani di lance al servizio del Duca di Savoia, dimostrando un forte amor di patria e un impegno nella difesa del territorio.

Nel 1620, gli Annibaldi residenti a Valenza contavano ben nove famiglie distinte, segno di una forte vitalità demografica e di una ramificazione rilevante all’interno della cittadinanza locale. La presenza di un così alto numero di nuclei familiari testimonia il successo della famiglia e la sua capacità di prosperare attraverso le generazioni.

Nel corso del Seicento, P. Stefano Annibaldi continuò la tradizione familiare d’impegno nell’istruzione, ricoprendo il ruolo di docente presso l’ateneo di Pavia, perpetuando così il legame della famiglia con l’istituzione universitaria. Gaspare Giuseppe Annibaldi, a sua volta, ricoprì la carica di podestà della città verso la fine del Seicento, esercitando il potere amministrativo e contribuendo alla conduzione locale. Infine, Giovanni Francesco Annibaldi fu un ecclesiastico erudito e particolarmente sensibile alle nuove correnti di pensiero religioso. La sua profonda conoscenza delle Sacre Scritture e la sua attenzione alle problematiche spirituali del suo tempo si riflettono nei numerosi manoscritti che lasciò in eredità, contenenti riflessioni sui vangeli delle domeniche e sulle feste di precetto, offrendo una preziosa testimonianza della sua fede e del suo impegno pastorale. Questi scritti, probabilmente conservati negli archivi diocesani o privati, rappresentano una fonte preziosa per comprendere la spiritualità e la cultura religiosa dell’epoca.

De Cardenas

La storia della famiglia De Cardenas a Valenza affonda le sue radici nella seconda metà del Cinquecento, un periodo turbolento in cui l’Europa era costantemente scossa da conflitti religiosi e politici.

L’arrivo della famiglia, al seguito delle truppe spagnole, non fu un semplice trasferimento geografico, ma l’immersione in un mondo dove l’arte della guerra era elevata a principio esistenziale, a una vera e propria «fede» oltre che a una professione.

Il primo membro a lasciare un’impronta tangibile fu Alonso De Cardenas, alfiere della comitiva di Garcia di Ayala, figura di spicco proveniente dalla diocesi di Toledo, nominato governatore di Valenza nel 1563. La sua posizione di alfiere, portabandiera e simbolo di onore, suggerisce un ruolo di rilievo all’interno della gerarchia militare e politica. Successivamente, nel 1575, un altro De Cardenas, Francesco, fece la sua comparsa a Valenza, seguendo le orme del capitano spagnolo Enrico Centello. Entrambi, Alonso e Francesco, scelsero Valenza come loro nuova casa, stabilendo legami duraturi con la comunità locale attraverso il matrimonio. L’unione con la famiglia Perego suggellò la loro integrazione nel tessuto sociale valenzano, rafforzando la loro posizione e garantendo la continuità del loro lignaggio, giganteggiando in un panorama di pigmei.

Alonso, le cui origini suggeriscono una possibile nobile discendenza spagnola, dimostrò il suo valore sul campo di battaglia, ascendendo al rango di capitano. La sua vita, dedicata al servizio militare, si concluse nel 1590. Francesco, invece, intraprese un percorso leggermente diverso, raggiungendo il grado di sergente e spegnendosi nel 1611. Il figlio di Francesco, anch’egli di nome Francesco, il cui profilo di energia e pragmatismo non si discostò da quello del padre, si distinse per il suo coraggio e la sua leadership durante l’assedio di Valenza del 1635, ricoprendo la carica di fiero comandante governatore. Nulla lo buttò a terra, la sua determinazione e la sua abilità nel difendere la città lo resero una figura eroica e paradigmatica, disposta con una luce quasi sacra, contribuendo a cementare il prestigio della famiglia De Cardenas a Valenza.

Curiosamente, nonostante la condivisione del cognome, non vi è certezza di un legame di parentela diretto tra Alonso e Francesco. L’ipotesi più accreditata suggerisce che potrebbero essere stati zio e nipote, oppure appartenenti a rami diversi della stessa famiglia. Quel che è certo è che i loro discendenti diedero vita a due distinte linee genealogiche De Cardenas, consolidando ulteriormente la presenza e l’influenza della famiglia nella storia di Valenza. Le loro dignitose vite, intrecciate con le vicende militari e politiche della città, rappresentano un capitolo importante nella storia locale. Quasi uno scontro familiare tra il sapere e il potere, dove l’eclettismo non era previsto.

Il maestoso palazzo, eretto con imponenza di fronte al venerabile monastero di Santa Caterina – destinato a divenire, nei secoli successivi, Palazzo Trecate, affacciato sull’attuale via Banda Lenti – deve le sue origini all’iniziativa del sergente Francesco De Cardenas.

Quest’edificio, all’epoca della sua costruzione, presentava un aspetto grandioso e imponente, un vero e proprio punto di riferimento per chi giungeva a Valenza attraverso la porta di Bassignana. Immaginate, lettori, un panorama diverso da quello odierno: le costruzioni che ora ne celano parzialmente la magnificenza all’epoca non esistevano. Il palazzo era circondato da un vasto parco, ben più esteso e rigoglioso di quello che possiamo ammirare oggi, un’oasi verde che inglobava perfino una delle rocche fortificate di Valenza, di cui purtroppo, ai giorni nostri, non restano che labili tracce, memorie sbiadite di un passato glorioso.

Già a partire dalla prima metà del Seicento, la famiglia De Cardenas si era saldamente insediata ai vertici del potere cittadino. Dotati di un forte e nobile spirito operativo, manifestato con particolare eccellenza nel campo militare, i membri di questa casata ricoprivano cariche di notevole importanza e prestigio all’interno della comunità valenzana esercitando la propria autorità praticamente su tutto. Don Diego De Cardenas, forse figlio del sergente Francesco, esercitò l’ufficio di referendario di Alessandria durante il biennio 1602-1603, dimostrando capacità amministrative e un’acuta sensibilità giuridica.

Don Gabriele De Cardenas, figlio di Alonso, ricoprì invece la carica di governatore di Valenza dal 1636 fino all’anno della sua scomparsa, avvenuta nel 1644. Durante il suo mandato, si distinse per la saggezza e la fermezza con cui seppe guidare la città in un periodo storico non privo di difficoltà. Come testimonianza della profonda fede che animava i De Cardenas, nel 1647 il canonico Francesco De Cardenas, devoto e partecipe, istituì un canonicato solenne, dedicato con fervore alla Vergine Maria e all’amata Santa Rosalia, difensora della città.

Negli anni a seguire, i membri della famiglia De Cardenas continuarono ad accrescere il loro prestigio e ad ampliare le loro funzioni pubbliche, operando sempre con grande dignità personale e con un senso innato del dovere. Il loro impegno e la loro dedizione furono infine coronati dal conferimento del titolo di conti, grazie al ramo discendente da Francesco De Cardenas, sancendo così definitivamente l’importanza e il peso che questa famiglia aveva acquisito nella struttura sociale e politica di Valenza.

Lorenzo Gaspare Matteo De Cardenas, conte di Valeggio, nato a Valenza il 27-11-1791, fu sindaco di Valenza dal 1840 al 1845 (nel 1844 ospitò nel suo palazzo il re Carlo Alberto), dal 10-5-1848 (convalida giuramento), adulato e ascoltato, fu nominato senatore permanente (di nomina regia) prima dello Stato Sabaudo e poi del Regno d’Italia fino alla morte, avvenuta in Valenza il 18-8-1863.  Il conte Giuseppe De Cardenas, liberale ma non troppo con enorme popolarità, fu parlamentare nel Regno d’Italia nella IX-X-XI legislatura.

La loro storia s’intreccia indissolubilmente con la storia della città stessa, lasciando anche un’impronta indelebile nel patrimonio architettonico di questo territorio. Villa De Cardenas-Pravernara, un elegante edificio risalente al XVIII secolo, si erge maestosa a mezza costa sulla collina. La sua posizione privilegiata le permette di dominare l’intera vallata situata a sud di Valenza, precisamente nella rinomata regione di Pravernara.

La storia della villa affonda le sue radici in tempi antichi. Testamenti risalenti al 1611 testimoniano che Francesco De Cardenas, figura di spicco dell’epoca, lasciò in eredità la proprietà ai suoi amati figli, segnando un importante passaggio di testimone. Ulteriori dettagli emergono da un manoscritto datato 1699, che narra di un periodo turbolento in cui la villa diede alloggio a truppe spagnole di passaggio, offrendo rifugio e riparo durante i loro spostamenti. Questo episodio sottolinea il ruolo rilevante che Villa Pravernara ha svolto nel corso dei secoli, testimoniando eventi storici e offrendo ospitalità in tempi di necessità. O, almeno, è bello immaginare che sia così.

Del Pero

La famiglia Del Pero, avvolta da un’aura di storia secolare, affonda le sue radici nella pittoresca località di Corno. La tradizione narra che, nel lontano 1109, Adamo Del Pero ricoprisse la prestigiosa carica di console, testimoniando l’importanza e l’influenza della famiglia già in quell’epoca. La sua vita fu tragicamente interrotta nel 1161, quando cadde valorosamente nella guerra che lo vide contrapporsi a Milano. In quell’anno di conflitti e cambiamenti, Ulrico Del Pero portò avanti l’eredità familiare, anch’egli in veste di console, dimostrando la continuità del loro impegno civico.

Il filo della storia dei Del Pero si snoda poi verso Valenza, dove, già nel 1347, la famiglia aveva stabilito la propria presenza. La testimonianza di Benvenuto di S. Giorgio, nella sua cronaca risalente a quel periodo, menziona un certo «Isemboldus de Pyro», rafforzando l’ipotesi di un radicamento precoce a Valenza. In questa città, i Del Pero non furono semplici spettatori ma attivi protagonisti della vita politica e sociale, assumendo un ruolo di rilievo nel governo cittadino, senza andare troppo per il sottile.

Massimo Del Pero, principale protagonista, si distinse particolarmente, emergendo come una figura di spicco all’interno dello stato, per il suo dinamismo nell’esercizio diplomatico. La sua saggezza e le sue capacità non passarono inosservate all’occhio acuto di Carlo V – il grande sovrano pan-europeo – il quale nutriva una profonda stima nei suoi confronti. Il sovrano, in segno di riconoscimento e affetto, lo insignì del titolo di cavaliere aurato e conte di Palazzo, un onore conferito con un solenne documento siglato a Villach (Austria) il 24 giugno 1552. Questo riconoscimento non solo elevò ulteriormente lo status di Massimo, ma anche quello dell’intera famiglia Del Pero. L’ascesa dei Del Pero continuò nella seconda metà del XVI secolo, quando Filippo II – figlio di Carlo V re di Spagna – nominò Massimo Collaterale Generale del Ducato di Milano, una posizione di grande responsabilità e influenza all’interno dell’amministrazione del ducato che equivaleva a un marchio di potere e autorevolezza.

Il XVI secolo fu particolarmente ricco di figure illustri all’interno della famiglia. Ricordiamo Gerolamo di Francesco, commendatore dell’Ordine di Malta, figura di rilievo nell’ambiente religioso e militare dell’epoca. Accanto a lui, si distinsero il giureconsulto Domenico Vincenzo, esperto di leggi e diritto, e P. Maestro Massimo, un domenicano di notevole erudizione e profonda conoscenza delle sacre scritture, una sorta di archetipo platonico, di forma ideale.

La presenza di figure così diverse e competenti testimonia la ricchezza intellettuale e professionale che caratterizzava la famiglia Del Pero.

Nei secoli successivi, la famiglia continuò a prosperare e a tessere legami importanti con altre famiglie nobili. Maria Teresa, una discendente dei Del Pero nata nel 1800, incarnò la grazia e l’eleganza della sua stirpe. Vent’anni dopo, suggellò un’alleanza matrimoniale di prestigio, unendosi in matrimonio con il Conte Ferdinando Salvi di Brescia, consolidando ulteriormente la posizione della famiglia all’interno dell’aristocrazia e perpetuando il nome Del Pero attraverso le generazioni (famiglia Salvi Del Pero). La storia dei Del Pero si presenta quindi come un affascinante mosaico di eventi, personaggi, legami e un certo potere simbolico e cortigiano che contribuì a tracciare un quadro vivido della storia non solo locale.

 

Dini / Dina

La storia della famiglia Dini scaturisce in un passato lontano, avvolto dalla leggenda e supportato da frammenti documentali che ne testimoniano la presenza secolare nel tessuto sociale e politico del Nord Italia. La tradizione familiare narra di un capostipite di nome Dinna, un tribuno romano di rango, cui è stato pure attribuito il merito di aver riedificato la città di Valenza, conferendole nuova prosperità e vigore. Questa figura, sebbene avvolta nel mito, rappresenta un punto di riferimento cruciale nell’identità della famiglia Dini, simboleggiando un legame indissolubile con la storia e il territorio valenzano.

Un ramo della famiglia Dini, spinto forse da ambizioni o necessità politiche, si trasferì in Savoia, terra di opportunità e di nuovi orizzonti. Qui, nel corso del XII o XIII secolo, adottò il cognome De Morri, segnando una trasformazione nella loro identità nominale e un distacco, seppur parziale, dalle origini valenzane. È importante rilevare che questo cambio di cognome non implicò una completa rottura con le radici familiari, ma piuttosto una ramificazione che avrebbe portato la famiglia Dini a prosperare anche in terra sabauda, dettata più da calcoli personali che non da programmi condivisi.

Tornando al ramo valenzano, la documentazione storica ci offre uno spaccato della vita e delle attività dei suoi membri nel corso del XIII secolo. Si ricorda in particolare Pietro Dino e suo figlio Guglielmo, figure di spicco nella cittadinanza locale. Nel 1274, Guglielmo, una figura più religiosa che politica, attraverso un atto notarile redatto ad Alessandria il 4 agosto, compì un gesto di generosità e devozione, donando una casa ai frati, a testimonianza della sua fede e del suo impegno sociale.

Nel 1280, emergono i nomi di Antonio e Franceschino Dini, presumibilmente figli del precedente Pietro. La loro esistenza, attestata da documenti dell’epoca, ci permette di tracciare un quadro più completo della famiglia Dini nel contesto storico del Basso Medioevo. Purtroppo, le tracce documentali si fanno più rarefatte per le successive tre generazioni, lasciando un vuoto temporale nella ricostruzione della storia familiare. Questo silenzio documentario non implica necessariamente l’assenza di eventi significativi, ma piuttosto la difficoltà di accedere a fonti storiche complete e dettagliate.

Nel 1360, la figura di Filippo Dina di Valenza, canonico di Vercelli, emerge dalle nebbie del tempo in virtù di una personalità non comune nel panorama generale. La sua posizione ecclesiastica di rilievo testimonia il prestigio raggiunto dalla famiglia Dini nella società del tempo. Contemporaneamente, si distinguono Giovanni Dina, medico, e Andrea, notaio, a riprova della diversificazione delle attività e degli interessi dei membri della famiglia.

Nel 1375, Enrico Dina, dottore di diritto canonico e canonico prebendato di S. Maria di Valenza di grande spessore, rappresenta un’altra figura di spicco nel panorama familiare. La sua competenza giuridica e la sua posizione ecclesiastica lo resero un personaggio influente nella popolazione valenzana. Allo stesso tempo, Giacomino Dina, chierico beneficiato della diocesi di S. Sisto in Pavia, ci testimonia la presenza della famiglia Dini anche in altre località del Nord Italia.

In quel periodo, si ricordano anche Giacomo, Antonio e Tomaso Dina, a conferma della vitalità e della ramificazione della famiglia. Successivamente, troviamo Giovanni, medico, Andrea, Pietro e Martino, figli di Giacomo Dina. Nonostante la loro esistenza sia attestata, le informazioni a loro riguardo sono scarse, lasciando spazio a interrogativi e supposizioni.

Nel 1459, Enrico Dina, dottore in utroque – sia in diritto civile che canonico – e rigoroso arringatore veemente, ricoprì la carica di luogotenente di Ugonino dei Marchesi di Saluzzo, Signore di Cardè. La sua posizione politica di rilievo testimonia l’importanza raggiunta dalla famiglia Dini nel contesto feudale del XV secolo.

A partire da questo periodo, le notizie sulla famiglia Dini si diradano nuovamente per le successive sei generazioni. Questa lacuna documentaria rappresenta una sfida per la ricostruzione della storia familiare.

Francesco fu una figura di spicco del panorama politico e religioso del Sacro Romano Impero, rappresentante diretto e pragmatico dell’imperatore nei territori italiani. Di intelligenza pura e affilata, celava angosce e spaventi e cercava sempre la bufera, mai l’appoggio, un volpone gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia ad alcuno, blandendo e minacciando alleati e avversari.

Guazzo

La famiglia Guazzo, con radici apparentemente legate al feudo di Bozzole e al casalese, vantava indubbiamente ampi possedimenti sia nel territorio di Bozzole che nella zona di Lazzarone. Questa casata, riunita a Valenza, si trovò coinvolta in una serie di dispute legali con il Comune, aventi per oggetto il controllo delle isole fluviali del Po situate di fronte a Bozzole. Queste controversie, figlie di un altro tempo, segnarono un periodo di accesa competizione territoriale tra la famiglia e l’autorità comunale di Valenza.

Nel periodo compreso tra il 1376 e il 1378, le cronache riportano la figura di un prete di nome Uberto, un eminenter ecclesiastico che, in un breve arco di tempo di soli due anni, si distinse per la sua abilità nel permutare diversi benefici ecclesiastici all’interno della città e della diocesi di Pavia. Le sue rapide e frequenti transazioni testimoniano una dinamicità insolita nel panorama ecclesiastico dell’epoca, un modello di impegno pubblico fondato su competenza e umanità. Quasi sempre fuori dal coro, pleonastico subì alla fine una sorta di nemesi.

Nel 1459, Giovanni Antonio Guazzo si distinse per la sua munificenza e devozione religiosa suscitando ammirazione. Fondò e dotò la cappella, o altare, del Corpus Domini all’interno della chiesa di San Francesco a Valenza. A corredo della cappella, quasi dissacrando il luogo in nome della propria autorevolezza, fece erigere due sepolcri gentilizi, destinati ad accogliere i membri illustri della famiglia, sancendo così la presenza e l’importanza della casata all’interno della comunità religiosa locale. Auspicava risolutamente che Valenza divenisse quella che era persuasa di essere: devota, sapiente, ospitale e fraterna.

Tuttavia, verso la fine del Cinquecento, una tragedia domestica si abbatté sulla famiglia Guazzo, gettando un’ombra oscura sul loro prestigio. I fratelli Giacomo Vincenzo e Giovanni Matteo, figli di Antonio Maria Guazzo, furono protagonisti di un violento alterco scaturito da motivi futili e banali. Nel culmine della disputa, Giacomo Vincenzo, al di là di ogni buonsenso, uccise il fratello Giovanni Matteo, rendendosi immediatamente latitante per sfuggire alla giustizia. Il podestà di Valenza, informato dell’efferato crimine, condannò Giacomo Vincenzo alla pena capitale nel 1576, emettendo la sentenza in contumacia, data l’irreperibilità dell’accusato.

Margherita Basti, vedova di Antonio Maria Guazzo e, di conseguenza, madre dei due fratelli, fu profondamente e atrocemente colpita da questo fratricidio. Il suo dolore, un misto di lutto e disperazione, la consumò interiormente. In quanto madre, a lei spettava il diritto di concedere il perdono al figlio disumano, un atto di clemenza che avrebbe potuto alleviare il suo tormento. Tuttavia, la lotta interiore che la dilaniò fu lunga e straziante. Il conflitto tra l’amore materno e l’orrore per il gesto compiuto dal figlio fu un peso insostenibile, un marchio d’infamia (tipo lettera scarlatta).

Solo dopo due anni, quando il dolore materno si era in parte placato e lenito, Margherita trovò la forza di perdonare Giacomo Vincenzo, ufficializzando il suo perdono con un atto formale datato 24 novembre 1578. Questo atto di misericordia, sebbene tardivo, rappresentò un tentativo di riportare la pace nel cuore della famiglia, martoriata dalla tragedia e dal dolore.

La storia è fatta di miserie e grandezze, di gloria e d’infamia, ci sono certe realtà che non cambiano mai, con quadri a tinte fosche, un po’ nel farsesco e un po’ nel drammatico.

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