“Il partigiano Morgan è salito lassù e cammina con i nostri compagni che lo hanno preceduto”
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“Il partigiano Morgan è salito lassù e cammina con i nostri compagni che lo hanno preceduto”

Riceviamo e pubblichiamo il commosso ricordo del partigiano Morgan, Santo Campi di Novi Ligure, scomparso lunedì. A ricordarlo affettuosamente e a ripercorrere i bei momenti trascorsi insieme e le avventure condivise è Franco Barella, il partigiano Lupo

Riceviamo e pubblichiamo il commosso ricordo del partigiano Morgan, Santo Campi di Novi Ligure, scomparso lunedì. A ricordarlo affettuosamente e a ripercorrere i bei momenti trascorsi insieme e le avventure condivise è Franco Barella, il partigiano Lupo

NOVI LIGURE – In seconda elementare, nelle scuole della Pieve, mi trovai seduto accanto nel banco un ragazzo biondo, lindo, ordinato, ma insofferente alla disciplina. Si chiamava Campi Santo e non si arrabbiava più di tanto, quando storpiando nome e cognome recitavo:“campo santo”, ma era meglio non insistere. Per me divenne Santino, o più amichevolmente, Tino.  Dissero che me lo avevano messo accanto pensando che io potessi indurlo ad essere più ubbidiente. Accadde l’inverso e fu il tempo della caccia alle lucertole con la fionda a basso della Pieve, marinando la scuola; dei dispetti al campanaro della Chiesa della Pieve e al suo orto; degli insetti nei calmai perché uscissero ad arabescare fogli e registri; della gara primato per bere tanta acqua, che portò Minetto all’ospedale; degli scontri con Bogliolo, che ci stendeva sempre; degli abbracci rubati alle compagne; delle prediche inascoltate di don Giuseppe; del fare nostro rifugio degli anditi negli “ebronni”della piazza della Pieve; delle merende che la mia mamma forniva a tutti noi chiassosi ragazzi, intenti a giocare fra il cortile della corderia e il frutteto, sovente violato fra le ire di zio Carlein; degli scontri fra i “corboi”, così chiamavamo i mandriani del Texas, e i “pelirusi” ornati delle penne sottratte alle ventole dei fornelli di casa.

C’erano con noi : Fiorenzo, Germano, Aldo e il suo gemello Gino, Egidio, Giuliano, dalla bella sorella di cui eravamo tutti segretamente innamorati. Qualche volta venne anche il Franchein, il gobbetto, il figlio del calzolaio di via Adua. Tempi beati goduti fra le ire, le fughe e le sberle, del cantoniere al quale avevamo l’abitudine di sparpagliare i cumuli di ghiaia, da lui diligentemente ordinati, destinati a riparare le strade allora sterrate.

Poi le scuole superiori ci divisero. Venne il tempo incombente della guerra, il richiamo alle armi, l’8 settembre del ’43, l’invasione. Chiamato alle armi mi ero “imboscato”, così allora si diceva di chi voleva star fuori dai guai, in sanità all’ospedale di Alessandria. Degli amici non si sapeva più nulla. Invano si chiedevano notizie, le risposte erano sempre vaghe. Venne la rivolta all’invasore, al sopruso, alle sofferenze: la resistenza, come la chiamarono poi. Santino era tornato da militare, ma come la R.s.i. aveva nuovamente chiamato alle armi la sua classe, era sparito.

Io ero entrato a far parte del Gap Mo. Non sopportavo il passo ferrato dei tedeschi sulle nostre strade.
Fu Girardenghi, del Cln Alessandrino, che volendo stabilire un contatto con i membri della resistenza di Novi, mi incarico di avvicinare un certo “Acuto” l’organizzatore, a suo dire, del locale Gap. Lo avrei trovato, mi suggerì, recandomi presso la bottega da ciabattino di via Adua. Acuto altri non era che il Franchein. Un abbraccio, brevi parole, un altro abbraccio e il contatto fu stabilito. Venne la Pasqua del ’44 e il rastrellamento della Benedicta. Circolavano notizie drammatiche appena sussurrate. Incontrai la mamma di Santino, io ero in divisa militare con tanto di bracciale abusivo della croce rossa. Le dissi che stavo andando a Capanne di Marcarolo. Mi fisso dolente con i suoi occhi azzurri stanchi di pianto: “Dicono che ne hanno uccisi molti” Deglutì lacrime “Santino era lassù”.

Fortunatamente lui era riuscito a cavarsela e tornò alla bottega da ciabattino. Fu così che Santino ed io, senza incontrarci, continuammo a far parte dei “banditi”. Lui a disarmare militari, io a condurre al sicuro fuggiaschi, ma le polizie italiane e tedesche si erano fatte più solerti. La bottega da ciabattino, per essersi troppo esposta in aiuto alle formazioni di montagna, dovette essere abbandonata. Il Gap Mo era ormai divenuto pressoché inattivo: “Cruat” era scomparso durante un bombardamento, Vaselina era morto dissanguato sotto ponte del Bormida, con l’arresto di Trio, il collegamento con Torino saltò, e la rete pazientemente tessuta con Ivrea, Aosta e gli spalloni al confine si dissolse. Giunse la notizia che Trio era stato fucilato al Martinetto. Riunii i superstiti, non sarebbe stato difficile collegarlo con noi.

Restava solo la fuga. Io raggiunsi i monti della Val Borbera,
che mi erano famigliari. Da tempo ero a contatto con Scrivia, fui in grado di chiedergli e ottenere di essere mandato in un distaccamento verso valle e raggiunsi il Vestone a Cantalupo. La prima persona che incontrai sulla strada per Colonne fu il Santino, divenuto il partigiano “Morgan”, scampato alla Benedicta, alla retata della bottega da ciabattino, al rastrellamento d’agosto, sempre fiero, lindo nella divisa americana che sembrava uscita dalla sartoria il giorno stesso. Con lui avrei poi ritrovato nel distaccamento anche Acuto, Uragano e Billi. Fu una specie di “ritorno in famiglia”.

Il 15 dicembre riprese con impegno e mezzi, la caccia ai banditi di montagna. La valle pullulava di soldati della wehrmacht e di brigate nere. Attuammo la prevista ritirata verso i rifugi predisposti vicino alle vette. Prima i giorni, le settimane poi e infine i mesi, sembrava non dovessero passare mai. Comunque il rastrellamento si era risolto in un insuccesso per l’invasore e le “provvisorie milizie”. Secondo gli ordini di Scrivia, noi, i ribelli, così eravamo stati promossi da banditi, non ci eravamo lasciati agganciare.

Spostandosi senza sosta, dormendo nella neve, mangiando croste di pane e castagne secche, ci eravamo sottratti agli scontri. Restammo attivi solo attaccando pattuglie isolate per poi sparire ancora. Subimmo poche, se pur dolorose, perdite. Finalmente verso fine gennaio sembrò tornare la calma. I rastrellatori rientrarono alle loro basi in pianura e noi riprendemmo le posizioni abbandonate e tornammo ai nostri alloggiamenti. Finalmente a mangiare una zuppa calda, a stare accanto a quella striminzita stufetta di ghisa, a dormire ancora nella paglia, ancora con i pidocchi, più attivi con il calore, ma sotto un tetto e con qualche coperta in più.

Il 2 febbraio, una colonna composta da soldati arruolati dai tedeschi in turchestan, quelli che noi chiamavamo “i mongoli”, superato il ponte sul Besante, si stava dirigendo su Cantalupo. Torno presente a quelle ore, a quella rivolta dei ribelli, a quel basta scappare. Scrivia non c’è, sostituisce Bisagno al comando zona. Carlo capisce che le parole di Corvo “meglio morire di piombo, che di fame fuggendo” hanno fatto breccia, teme pericolose iniziative individuali. Manda staffette a chiamare i distaccamenti attorno, ordina l’attacco. Il sangue, che il freddo aveva raggelato, ora fluisce caldo nelle vene. Si attacca “o dainte o ganasa “ sussurro a Billi. Ci appostiamo sdraiati sulla neve appena sotto la villa dei Gazzani. Una leggera foschia copre la vista della strada sotto di noi. Sentiamo il rumore delle buffetterie della truppa in marcia. Difficile decidere: attaccare alla cieca o ritirarsi ancora? Quasi fosse stato invocato, un provvidenziale colpo di vento disperde la foschia. “Tulatii” urla Morgan e scarichiamo tutta la rabbia, la fame, il freddo, la nostalgia di casa che a diciott’anni attanaglia il cuore.

La sera del ventitre aprile si parte per l’ultimo atto. Sopra il carro che porta le munizioni di scorta e i viveri, sto traballando, “morto” di sonno e di stanchezza. Avevo fatto la notte di pattuglia al ponte rotto e poi avanti e indietro da Pertuso a Cabella sul cavallo di San Francesco, ad accompagnare Nero, Brescia e i parlamentari tedeschi da Scrivia. “Atainti che ti cosi” e Morgan mi sorregge fino a Mongirdino, dove possiamo fermarci per qualche ora. Poi ancora lui a Isola del Cantone che apre con un calcio la porta del comando tedesco urla quell’ “ende hoc” che ci avevano suggerito di ingiungere agli invasori. Il “fuoco amico” che mi acciacca e ancora Santino che mi sorregge e mi porta soccorso. Santino, non più Morgan, perché la guerra è finita, anche se quei “guerrieri” del 26 aprile, che ci hanno sparato addosso, sembra che non lo sapessero .

Finalmente tutti a casa, liquidati in fretta dalla “benpensanza” sopraggiunta con la burocrazia luogotenenziale. Un abbraccio e un arrivederci, che sarà un addio per molti, ma io ho un fratello in più: oltre Italo e Germano, ora ho anche Santino, che chiamo Morgan quando rivado ai giorni della lotta, Tino quando mi rammento del compagno di banco alle elementari della Pieve. Lui mi chiama Francu, traduzione in diletto novese di Franco, si vede che Lupo non gli piace, ma mi sta bene essere chiamato così, mi riporta nel cortile della corderia, quando la mia mamma ci chiamava per la merenda .
Ora Tino o Santino, “Morgan” come i più lo ricordano, è salito lassu e cammina con i nostri compagni che lo hanno preceduto: “ a costa di monte, vicino alle nuvole, vicino alle stelle”.

Il rosario di Santo Campi si svolgerà oggi, martedì 24, alle ore 20.30, nella parrocchia di Sant’Antonio in viale della Rimembranza, mentre il funerale verrà celebrato domani, mercoledì 25, alle 14.30, nella stessa chiesa.

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